“In effetti, la vita non è che una ragnatela intessuta di spettri, sogni e illusioni, e sono convinto che il regno nato oggi dalla spada e dal massacro, in questa valle terribile, non sia più consistente della spuma del vivido mare”.
Negli stessi anni in cui il celeberrimo J.R.R. Tolkien dava prova della sua sfrenata immaginazione con la creazione della Terra di Mezzo, un altro autore altrettanto importante osava varcare la soglia del fantastico, imponendosi ben presto come modello della narrativa Sword and Sorcery.
In soli dodici anni di carriera - finirà col suicidarsi all’età di trent’anni - Robert Ervin Howard si consacrò difatti come il maestro indiscusso di uno stile austero e solenne, improntato sul fantasy eroico.
Sin dagli albori della sua carriera, Howard riuscì a dare vita a personaggi indimenticabili come Conan il Barbaro e Kull, l’imponente eroe di Atlantide diventato re di una terra leggendaria. Ma nessuno tra questi sembrava affascinarlo tanto quanto il popolo che lui chiamava i pitti, con il loro temerario re Bran Mak Morn. Questi piccoli, tarchiati e scuri indigeni del Mediterraneo, poi divenuti i primi abitanti dell’Inghilterra, accompagnarono in continuazione il suo percorso letterario. Finirono col diventare addirittura una sorta di ossessione per lui, come rivelò egli stesso all’amico collega H.P. Lovercraft.
Tramutatoli in una tribù barbarica forte e agguerrita dopo averne scoperto l’esistenza a tredici anni su un libro di storia, Howard cominciò a inserirli in gran parte dei suoi racconti dipingendoli come abitanti delle caverne e dei recessi lacustri situati ai margini del mondo, custodi selvaggi delle foreste primordiali in lotta contro ogni tentativo di invasione. L’autore nutrì una passione talmente forte per loro a tal punto da non separarsene più, rendendoli col passare degli anni la vera chiave del suo successo.
Ne è una chiara testimonianza l’attuale raccolta di opere edita da Urania Mondadori che prende il nome proprio dal protagonista su cui è incentrato il libro: il sovrano Bran Mak Morn. Ogni racconto ivi contenuto è così violento, incalzante e impetuoso da far battere il cuore del lettore a ogni sferzata di frusta, a ogni fendente e a ogni minaccia scaturita con ardore dalle labbra del re dei pitti contro la smaniosa Roma e tutti i nemici passati e futuri che si presentano incautamente lungo il suo cammino.
Le verdeggianti isole britanniche in cui si svolgono le vicende appaiono come un luogo sull’orlo della decadenza e prossimo alla schiavitù, dove tutto è abbandonato a se stesso, sepolto accanto agli antichi valori. Ma sotto la terra coperta d’erica resta ancora impressa la parola coraggio. Il suolo calpestato dal piccolo popolo è intriso del sangue versato dai guerrieri che hanno lottato sinora per difendere la propria patria, e un personaggio fiero e audace come Bran non può certo voltare le spalle a un simile sacrificio.
L’atmosfera cupa e tenebrosa che incombe su tutti i miti eroici di Howard rispecchia più che mai lo stato d’animo di questo personaggio. Estraneo alla decadenza fisica dei suoi sudditi, avvantaggiato da una purezza di sangue che soltanto lui può avere, l’ultimo re del più antico dei popoli è consapevole del fatto che i pitti sono da sempre destinati a precipitare nel buio nonostante qualunque suo sforzo. Su di lui grava il destino di una profonda solitudine: la sua razza scomparirà nell’ombra. Eppure si rifiuta di chinare il capo. Meglio di gran lunga guardare dritto negli occhi la morte e combattere sinché non sarà quest’ultima a decretare l’ora in cui porre fine alla sua vita.
Punto nevralgico della caratterizzazione che Howard imprime nei suoi lavori è senza ombra di dubbio l’inestinguibile ciclo dell’umanità. Esso obbliga i popoli a intraprendere lunghi esodi, sopravvivendo a cataclismi planetari di tale portata da azzerare le loro culture e riproiettarli in una condizione selvaggia, una condizione di stato primitivo dalla quale risorgeranno solo con tempo e fatica per poi andare nuovamente incontro alla decadenza. Una successione di eventi senza fine da cui non si può fuggire, un’eternità dedita alla migrazione e alle barbarie.
Il libro può vantare la presenza del racconto Vermi della Terra, giudicato in assoluto dagli appassionati come la migliore storia di Bran Mak Morn e come una delle più travolgenti prodotte dello scrittore. Anche Lovercraft espresse parole d’elogio in merito, affermando:
“Pochi lettori riusciranno a dimenticare la potenza sinistra e affascinante di quel capolavoro del macabro che è Vermi della Terra”.
In questa storia Bran, in incognito come ambasciatore presso la città di Eboracum, stringe un patto diabolico con le orrende creature che dimorano nei bui meandri del sottosuolo per saziare la sua incontenibile sete di vendetta sul governatore romano Tito Silla, che ha fatto inconsapevolmente crocifiggere un pitto proprio dinnanzi al loro re.
Vermi della Terra è a tutti gli effetti un capolavoro dalla prima all’ultima riga. Niente male pure Regni della notte, il poema Canto tribale e L’uomo nero.
Il ritmo è incalzante, i discorsi racchiudono pensieri profondi e i personaggi che attorniano il protagonista sono di una caratterizzazione unica. Tuttavia lo stile altisonante, eccessivamente dettagliato e alquanto dispersivo dei restanti quattro tasselli tende ad appesantire il libro nel suo complesso e finisce con lo sminuirne il valore.
Anche il repentino passaggio cronologico da un racconto all’altro, soprattutto con l’incombere dell’era contemporanea, grava sulla raccolta, perdendo quella magia propria delle battaglie epiche dei primi secoli d.C. Lo stesso Howard, d’altro canto, dopo Vermi della Terra dovette riscrivere alcuni di essi più e più volte per convincere il caporedattore di Weird Tales - la rivista letteraria alla quale dovette il suo successo - a pubblicarli.
Questo tuttavia non fa assolutamente di Bran Mak Morn un libro mediocre: tutt’altro. Non si può dire di conoscere a fondo la narrativa Sword and Sorcery se prima non si ha avuto modo di leggere almeno un’opera di Robert Ervin Howard, e quella in oggetto è sicuramente una delle raccolte più significative e ben curate in circolazione.
11 commenti
Aggiungi un commentoMi ha sempre intrigato molto il personaggio Bran Mak Morn, il suo essere diciamo "normale" dal punto fisico e contraddistinto da una certa dignità innata.
Spesso l'ho usato come arma nelle discussioni che tacciavano Howard di razzismo.
I Vermi della Terra è un arcconto bellissimo, calato in un contesto storico più che plausibile e con i Romani trattati per quello che in verità erano.
Il mio preferito però rimane L'Uomo Nero, anche se qui Bran compare solo come una lontana leggenda, incarnandosi per qualche tempo in una statua antichissima.
In compenso c'è Turlogh O'Brien al massimo della sua ferocia in quel racconto, ed io adoro Turlogh e la sua furia sanguinaria, e la sua ascia dalcassiana....
http://www.raccontisullasoglia.blogspot.com/
Infatti sono i due racconti che ho apprezzato di più. Magnifici! Nell'Uomo Nero, la furia di Turlogh O'Brien è qualcosa di indefinibile e in Vermi della Terra... beh, non c'è bisogno di parole.
Un saluto.
Al
Ringrazio molto l'autore per questo articolo!
Il libro recensito a mio parere è depositario di un valore aggiunto,agli occhi degli howardiani,grazie agli approfondimenti dopo i racconti.In primis spicca la meravigliosa storia scritta da Lippi,"Casa Howard".
Porprio su questa,e su altre letture howardiane,stavo pensando in questi giorni di scrivere un approfondimento.
Per i racconti:come potrete immaginare,quando leggo che Kull torna da Valusia per combattre non posso non tramortire con un pugno chiunque si trovi vicino a me per l'emozione.
Barbarici saluti!
Kull, si vede dalla tua firma che il racconto di Giuseppe Lippi ti è piaciuto...
Grazie infinite, Kull! Howard è senz'altro un genio e lo dimostra pienamente l'affetto e la stima che nutrono i suoi lettori anche dopo tutti questi anni dalla sua scomparsa.
Un saluto barbarico anche a te.
Al
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