Macba viene seppellita nel cimitero ai margini del paese di Tilos qualche giorno dopo. Nella notte il becchino, un ometto gobbo e storpio di nome Ghescik, dissotterra il corpo dando il via a una serie di eventi inaspettati. Dopo aver ripulito il cadavere della vecchia, truccato una scommessa e profanato il sotterraneo di una torre sigillata da secoli, Ghescik decide di recarsi alla casa diroccata dell'acchiapparatti. Si presenterà dal suo unico amico (con un libro rilegato in pelle scura) in cerca di un rifugio e di qualcos'altro... Questa l'entrata in scena del personaggio che dà il titolo al libro:
“Sei stato cattivo! Sì, sì, cattivo. Ma che ti è saltato in mente? Mettersi a dormire invece di compiere il tuo dovere. Ci hai fatto fare una figuraccia! Sì, sì, proprio una gran bella... o brutta? Belbrutta figuraccia!”
Appollaiato sulle scale di pietra che salivano al secondo piano della torre, davanti alla crescente rabbia del padrone, l’annoiato felino chiudeva e riapriva gli occhi, come per conciliare il sonno.
“Ma noi non ti diamo più da mangiare, sai? No, no, non ti diamo più da mangiare. Ti lasciamo sempre affamato! Così vedremo se non farai il tuo mestiere a dovere! Sì, sì... Sì che lo farai! Sì, sì.”
L’uomo continuava a parlare, ma adesso si era alzato e si muoveva irrequieto per la stanza. Controllò che il catenaccio del portone fosse chiuso, si assicurò che le imposte della finestra fossero sprangate e tornò ad accertarsi che la botola in cima alle scale fosse serrata. Poi riprese, più tranquillo.
“Cavolaccio Pelle, tu sei un gatto! È nella tua natura. Ti chiediamo solo di essere te stesso. Tu sei un gatto. Sì, sì... O no?” Si fermò interdetto. “O no, non lo sei?” Si accovacciò di nuovo davanti agli occhi del felino, come per trovarvi la risposta.
Spesso succede che tra un animale e il suo padrone si noti una certa rassomiglianza, ma in questo caso la similitudine era a dir poco strabiliante. L’uomo, così come il gatto, era di una magrezza anormale. Pelle e ossa. Il viso dai lineamenti pronunciati e irregolari, con zigomi all’infuori che spiccavano sotto le orbite tonde e incavate, somigliava molto al muso animalesco del felino. Una cosa però li differenziava: certamente il nasone sproporzionato dell’uomo ricordava il becco di un uccello piuttosto che l’organo olfattivo di un gatto.
“Non parli, eh? Non dici niente, eh? Lo sai che sei stato cattivo. Sì, sì, cattivo. Eppure Ossa non era così. No.”
Si stava calmando quando, improvvisamente, un pensiero lo fece ritornare di cattivo umore.
“No, no. No, no.” Il dito indice della mano sinistra prese a muoversi su e giù. Poi la mano cominciò a grattare il cuoio capelluto fino a strappare qualcuno dei pochi capelli che gli rimanevano. Questo sfogo, evidentemente, non fu sufficiente e d’un tratto l’uomo si alzò di nuovo in piedi a inveire.
“Ma proprio oggi dovevi metterti a fare le bizze? Oggi, oggi, proprio oggi ci hai fatto fare una pessima figura... Proprio davanti alle nostre migliori clienti. Eppure lo sai che ci chiamano quasi tutte le settimane, che hanno bisogno di noi...” Si bloccò un momento per fissare il pavimento.
“Ci credo, stanno sul fiume... Capirai, ci sono moltissimi topi, sorci, ratti, rattacci e rattoni... Che bello! Cioè, voglio dire, che schifo! Sì, sì, che schifo! Che bello schifo... E quelle fanciulle, con il lavoro che svolgono, hanno tanto, sì, sì, tanto bisogno di noi.”
Non appena ebbe finito di pronunciare quelle parole, un’espressione di contentezza gli si affacciò sul volto, subito dopo illuminato da un ampio sorriso sdentato. Poi, con lo sguardo perso nel vuoto, continuò il suo monologo.
“Ah, come sono belle, così piene di vita, gentili, carine. Sì, sì, lo sanno che siamo importanti. Ci trattano bene, lo sai, l’hai visto anche tu. Sì, sì, Pelle”, si rivolse nuovamente al gatto, “non è forse vero?”
Il felino non sembrava dare segno della minima reazione. Se ne stava lì, le palpebre socchiuse e l’aria indolente.
“Non dovevi farci questo torto. Lo sapevamo che non dovevamo fidarci di te. Ossa sì che era un gatto... Sì, sì, mica come te. Tu sei troppo interessato a cercare le gattine in calore, ma d’altra parte Rogna non si fa vedere da tre giorni e Guercio si è fatto male a una zampa... Ma rimedieremo. Sì, sì, rimedieremo.”
Lo squinternato si mise a sedere sulla seggiola e, impugnato un cucchiaio, lo inzuppò nel tegame che si trovava sul tavolaccio di legno. Pescò un po’ di poltiglia gialla e se la cacciò in bocca, prima di riprendere il filo dei suoi pensieri.
“Oi ci teniamo ae donne el bo... ello”, finì di masticare. Poi, interdetto, fissò il cucchiaio. “Puah, che schifo!” esplose. “Ci siamo mangiati la tua pappa. Che schifo! Che schifo! Che schifo!” Si passò la lingua fuori e dentro le labbra. Sgranò gli occhi.
“Però”, commentò, “non è poi così male... Ora capiamo perché disdegni i topi.” Poi, cucchiaio in mano, come se niente fosse seguitò a ingurgitare la poltiglia nel tegame.
“Quelle leggiadre e leggere donzelle sono le uniche che capiscono la nobiltà del nostro mestiere. Gli altri ci trattano male... non comprendono... non intendono... Ma Zaccaria è il miglior acchiapparatti di tutte le Terre di Confine. Sì, sì, su questo non ci piove. Non ci piove... Non ci piove! E puoi starne certo... Sì, sì, puoi starne certo! Anche perché è l’unico, sì, l’unico... L’ha inventato lui il suo mestiere!”
Visibilmente soddisfatto per la piega che aveva preso il discorso, si mise a riattizzare il fuoco nel camino all’angolo della stanza. Quelle cucchiaiate di cibo gli avevano ricordato di avere una gran fame. Mentre un brodino si riscaldava sulla brace, Zaccaria decise di ripulire e aggiustare i suoi strumenti da lavoro. Aprì il vecchio baule che teneva nascosto sotto la scala di pietra e tirò fuori gli oggetti che avevano bisogno di manutenzione: una lunga pertica con una retina sulla sommità, un paio di elaborate trappole, il lunghissimo spago che adoperava per i gatti e altri piccoli utensili che aveva imparato a usare man mano che si era fatto esperienza. Una volta che li ebbe accatastati tutti sul tavolo, si mise all’opera con grande concentrazione.
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