Quella torre, la sua casa, era l’unico luogo in cui Zaccaria fosse quasi a proprio agio. Rimasto orfano di entrambi i genitori quando era poco più che un bambino, aveva sempre vissuto lì. In effetti anche all’interno della sua adorata casa-torre aveva bisogno di mettere in atto tutta una serie di stratagemmi per sentirsi tranquillo. Ma almeno quei metodi da tempo collaudati funzionavano e ormai erano divenuti rapidi e meccanici.
Come sempre, dopo aver lucidato la pertica e accomodato una trappola, Zaccaria si era già annoiato. Di rado capitava che riuscisse a impegnarsi a lungo nella medesima attività. Meditò se immergersi nella lettura o se invece andare sul tetto a osservare la vita notturna di Tilos.
Toc-toc-toc. Toc-toc.
Tre e poi due colpi alla porta. Chi poteva essere a quest’ora di notte? Già, si sovvenne Zaccaria, quel modo di bussare era un codice che conosceva solo il suo amico Ghescik. In fretta andò ad aprire i due lucchetti, quindi spalancò il portone.
“Buona notte!” Sulla soglia Zaccaria accolse l’amico con un energico abbraccio, come al solito non ricambiato dall’altro. “Ma dov’eri sparito?”
Rigido come un tronco tra le braccia del matto, Ghescik si affrettò a borbottare: “Sssch. Zitto. La gente qui in paese dorme e poi...” si interruppe cercando di penetrare all’interno.
“Sì, sì, ha sempre fatto resistenza a fare ingresso nella nostra dimora e adesso non ha remora alcuna”, mugugnò Zaccaria. “Sì, sì, qui gatta ci cova. Ecco perché il legno sulla brace spumeggiava. Ecco perché!”
“Non mi fare subito arrabbiare. Senti che puzza. Fammi entrare! Quante volte te lo devo dire che questa fogna mi dà il voltastomaco!” Un canale di scolo scorreva proprio di fronte all’ingresso della casa-torre. Ghescik si stava innervosendo.
“No. No. Non è possibile, non è concesso. Lo sai che non si può, non si può così. Devi saltare la soglia e tornare indietro, per tre volte. Sì, sì, per tre volte.”
Ghescik non poteva aspettare oltre e sapeva che quando l’amico si impuntava su una cosa non c’era modo di fargli cambiare idea. Si guardò intorno e poi, suo malgrado, eseguì rapidamente le istruzioni del matto. Saltellò avanti e indietro per tre volte e finalmente ottenne il permesso di entrare. Una volta all’interno, aspettando che Zaccaria serrasse nuovamente la porta, lo storpio esaminò circospetto l’ambiente. Aveva sempre evitato quel luogo. C’era entrato solo quando non aveva proprio potuto farne a meno. Non era difficile capirne i motivi. Prima di tutto il tanfo nauseabondo di piscio di gatto e di chissà che altro rivaleggiava con il puzzo della cloaca all’esterno. Poi tutto quel disordine e quella sporcizia conferivano al locale un che di ripugnante. Infine, checché ne dicesse Zac, quella struttura era pericolante.
“Irrequieto, sì, sì. Irrequieto ci pari. Che hai?” L’acchiapparatti scrutò l’ospite. “Che t’è capitato? Hai messo le brache al contrario? Non avrai mica visto passare il topo maculato?”
“Ma quale topo maculato!” sbuffò Ghescik. “Mi stanno alle calcagna, Tamarkus e i suoi.”
“Ecco perché di recente abbiamo veduto più volte Toder il Lungo da queste parti. Ma perché, perché? Cos’hai compiuto mai?”
Ignorando la domanda, Ghescik cominciò a tessere la sua tela.
“Senti...”
“Sì, sì, sentiamo.”
“Sai...”
“No, no, non sappiamo.”
“Ho bisogno di un rifugio, non ho soldi, sono molto stanco e affamato”, dichiarò lesto lo zoppo. Quindi guardò il compagno con l’espressione più sconsolata che aveva nel repertorio.
“Ci, ci dispiace.”
“Zac, il fatto è che non posso andare a casa mia.”
“Già, con quel cagnaccio rognoso che ti cerca. No, no che non puoi.”
“Esatto... Mi basterebbe un letto e qualcosa da mettere sotto i denti. Non ce la faccio più.”
“Ci dispiace che tu stia male.”
Alle volte raggirare l’amico si rivelava una faccenda tutt’altro che banale.
“Non sto male, Zac. È che non posso andare a casa mia. Capisci ora? Non posso andare a dormire lì.”
“Già, cavolo! Già... E allora dove dormirai?”
Ghescik era sul punto di scoppiare, ma fece un ultimo sforzo.
“Pensavo che tu mi potresti dare una mano.”
“Darti una mano... Noi?” Zac si guardò le mani, perplesso. Ghescik lo fissò in cagnesco.
“Accidentaccio Zac, ti sto chiedendo di ospitarmi per un po’. Se non altro in nome delle razzie alle tombe che abbiamo fatto insieme.”
“Noi, noi... No, veramente non ci risulta.” Zaccaria si mise a camminare su e giù, scuotendo la testa. “Noi non facciamo certe cose. No, no!” Adesso scuoteva la testa e gli indici di entrambe le mani.
“Sì, d’accordo, tu certe cose non le hai mai fatte.”
“No, no, no.”
“Certo che no, mi sono sbagliato. Tu certe cose non le fai. Tu... Tu sei un nobile!” esclamò lo storpio. Zac si fermò all’istante e lo fissò sconcertato. “Ti ricordi che ho scovato le tue origini negli archivi di Burik, vero?” Ghescik sperò di aver toccato il tasto giusto. “Io, sono stato io. Si potrebbe dire che sono io che ho fatto di te un nobile. L’ho scoperto io che possedevi un secondo nome. Narrish. Zaccaria Narrish.”
“Già, è vero. Noi... Zaccaria ha il secondo nome e quindi è un nobile!”
“Esatto! Allora, mi ospiterai o no?”
Alla domanda dello storpio, il matto cadde per qualche attimo in uno stato di immobile catatonia.
“Per Belzebù, Zac, ascoltami”, supplicò il becchino. “Puoi ospitarmi per qualche giorno?”
D’improvviso l’altro si riscosse.
“Ma certo!” strillò. “Che domande ci fai? Noi siamo amici!”
Finalmente Ghescik si poté rilassare. Zaccaria era proprio strano e se qualcosa andava storto e cominciava a farneticare non c’era modo di riportarlo indietro dai suoi deliri. Per quella volta gli era andata bene, pensò lo storpio. Aveva compiuto il primo passo, ora si trattava di ottenere ciò per cui, in verità, era venuto.
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