Pontypool è una sonnolenta cittadina dell'Ontario dove non succede mai niente di significativo. Lo sa bene Grant Mazzy, maturo conduttore radiofonico che per animare la sua trasmissione del mattino ricorre a un tono volutamente provocatorio e sopra le righe, causando spesso il malumore di Sidney, la produttrice di rete. Le giornate di lavoro in radio seguono scalette monocordi, ravvivate da piccoli trucchi del mestiere. Un livido mattino, però, a Pontypool inizia ad accadere qualcosa di strano. Le notizie che giungono alla radio sono confuse e parziali. Si parla di improvvise esplosioni di violenza, di morti incomprensibili, e di episodi di cannibalismo...
Pontypool è un film canadese del 2009 che difficilmente vedremo sugli schermi italiani. Nessun nome di richiamo nel cast, nessuna cifra da capogiro nel budget e nessuna campagna virale volta a sdoganarlo come un evento presso il vasto pubblico. Parliamo di cinema minimale, fatto di pochi attori che con i loro corpi e le loro voci danno vita a un racconto claustrofobico e carico di tensione. Parliamo anche di zombi, ammesso che nel cinema odierno questa parola significhi ancora qualcosa. Gli sviluppi recenti del genere horror ci ha abituato alla presenza di due soggetti mostruosi legati da una vaga parentela. Gli zombi propriamente detti, cioè i morti risorti dalla tomba per opera di uno stregone o per ragioni sconosciute e più o meno propensi ad addentare la gente viva, e gli pseudozombi, vale a dire persone vive e vegete, ma infettate da qualcosa che le rende bestiali e feroci, spesso antropofaghe e contagiose. Il cinema di George A. Romero e le sue creature predilette hanno quindi figliato nei decenni nuove generazioni di personaggi più vicini concettualmente a terribili appestati fuori controllo che a creature tornate dalla morte. 28 Giorni dopo di Danny Boyle e lo spagnolo [Rec] sono solo due dei film più recenti che hanno sdoganato il concetto di cinezombi non più come non morto, ma come generica minaccia collettiva dalle connotazioni anche differenti. A firmare la sceneggiatura del film (esordendo così nel cinema) è Tony Burgess, medesimo autore del romanzo Pontypool changes everything (1998), anch'esso inedito nel nostro paese.
Ma il vero protagonista, in questo bizzarro zombi-movie del nuovo millennio, è la sorprendente modalità di trasmissione del mostruoso virus: il linguaggio. William S. Burroughs diceva: «Il linguaggio è un virus». Parole e concetti passano da un individuo all'altro, mutando e radicandosi non appena scatta la comprensione tra individui. Le culture nascono dai linguaggi e dalle loro evoluzioni in forme sempre più sottili e veloci da diffondere. Ricordiamo il concetto filosofico di meme, un'entità informativa riconoscibile da mente umana, quale potrebbe essere una parola, un simbolo, un'idea, che si comporta come un'unità in grado di autopropagarsi, germinando nella cultura e nella mente degli uomini. Non esiste, a pensarci bene, via di contagio più pericolosa e nello stesso tempo più emblematica. Non a caso, i protagonisti di Pontypool, essendo il personale di una stazione radio, lavorano essenzialmente con le loro voci, e quindi in prima linea sul fronte dell'epidemia. Una calamità che si diffonde sinistra e invisibile intorno a Grant, Sidney e i loro collaboratori. Pare che Tony Burgess, mentre scriveva il suo romanzo, pensasse alla Guerra dei Mondi, e alla celebre beffa messa in atto alla radio dal giovane Orson Welles. In Pontypool i ruoli sono rovesciati. I protagonisti, intrappolati nella loro piccola stazione radio, non hanno modo di conoscere quanto avviene nel mondo esterno se non attraverso i loro canali convenzionali, potenzialmente infetti. Cosa che li induce più volte a chiedersi se non sono vittime di un crudele scherzo, almeno finché la terribile epidemia non stringe le sue spire intorno all'edificio dell'emittente. Né basta tenere fuori i mostri affamati, perché la radio continua a trasmettere e bisogna pur parlare... parlare... parlare... parlare... finché qualcuno non inciampa in una parola qualsiasi, e una luce di sgomento nei suoi occhi tradisce la confusione dei suoi pensieri, l'incapacità a dire altro e l’inizio di un loop selvaggio. Un'incapacità a comunicare che prelude a una furia incontrollabile, a una disperata pulsione distruttiva che spinge a divorare l'individuo, ormai alieno, con cui non riesci più a identificarti.
La seconda sfida di Pontypool consiste nel raccontare una storia di zombi (pseudozombi!) senza mostrarli praticamente mai. Le creature dislessiche e fameliche appaiono di sfuggita, nell'ombra e per poche veloci scene. Per lo più se ne avverte la presenza e... per una volta se ne sentono le voci. Voci spettrali, che cantilenano ossessivamente fonemi senza senso mentre mani rabbiose premono contro le mura della fragile stazione radio. Vederli (sentirli) avventarsi sulla preda facendo eco alle sue ultime parole come un macabro coro è uno dei momenti più inquietanti del film. L'unicità del set richiama suggestioni di tipo teatrale e ci ricorda quando lo spettacolo volto a spaventare il suo uditorio si svolgeva al teatro del Grand Guignol.
E' impossibile non ricordare il dramma di André de Lorde intitolato Al telefono, dove l'ancora recente invenzione di Antonio Meucci permetteva al protagonista di ascoltare impotente gli ultimi momenti della sua famiglia trucidata da una banda di criminali mentre egli si trova in un'altra città. Stessa fissità della scena, stessa suspence mediata da un mezzo di comunicazione meccanico, stesso senso del crescendo drammatico affidato alla voce umana. Non è casuale che l'attore Stephen McHattie (visto in Fringe) regga gran parte della pellicola sulle proprie spalle, anzi sulle proprie corde vocali. Una voce metallica e sfrontata, insinuante e musicale che un eventuale doppiaggio italiano difficilmente riuscirebbe a sostituire. Tra un sanguinoso attacco dei feroci dislessici, il tentativo di ricorrere a lingue straniere per aggirare il contagio che sembra infestare alcuni vocaboli inglesi, e il timoroso uso di messaggi scritti, il dj Grant Mazzy non getterà la spugna, e continuerà a trasmettere, combattendo la sua guerra personale con la lingua impazzita fino alla fine. Una fine che potrebbe mostrare come il senso delle cose, e quindi della vita, è la prima vittima del nuovo male incombente. Un male che sembra dimostrare che il sistema fondamentale scelto dall'essere umano per comunicare è la violenza. E che il senso stesso della realtà è estremamente fragile una volta che ci si è affidati alle sfuggenti e mutevoli convenzioni del linguaggio. Persa la capacità di comunicare, perdiamo anche la nostra umanità, e diventiamo belve rabbiose.
Purtroppo, Pontypool non è un film riuscito a pieno. E non certo per i suoi fisiologici limiti di budget. La formidabile idea alla base del racconto è sviluppata in modo piuttosto superficiale, e si arena presto sul consueto modello della casa sotto assedio. Il finale può risultare affrettato e per certi versi confuso nelle sue intenzioni allegoriche, ma nel compesso Pontypool rappresenta già una piccola pietra miliare, di cui i futuri zombi-movie faranno meglio a tenere conto. Pontypool dimostra una volta di più come il senso dell’orrore non risiede esclusivamente negli effetti visivi, e come la voce di un attore di classe possa rappresentare il cardine di un’opera di suspence. Nell’attesa che qualche distributore italiano si accorga di questo piccolo, curioso film, non ci resta che schivare il contagio verbale affidandoci alla parola scritta, e ricorrendo al sempre pratico uso dei sottotitoli.
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