L’apparenza è immutata e immutabile. Se voglio, riesco facilmente a imitare il mio sguardo da diciottenne, il mio sorriso di allora, e forse con David ricorrevo a questo stratagemma, senza rendermene conto. Si può ingannare solo chi vuol essere ingannato: è una lezione che ho imparato a mie spese novant’anni fa, e da allora non l’ho più dimenticata. Per fortuna a questo mondo quasi tutti desiderano lasciarsi ingannare, per i motivi più diversi; altrimenti come farebbero quelli come me a sopravvivere? Eppure mi chiedo come David abbia potuto credermi, anche per un solo istante; come abbia potuto non accorgersi, già allora, prima del mio rifiuto, prima delle urla e dei giuramenti di vendetta, dell’abisso che mi separa dai miei diciotto anni, dalla luce del sole e da mio padre.
A volte penso che mio padre, lui sì, se ne sarebbe accorto. Dopo il primo romanzo per un breve periodo ho immaginato di incontrarlo. Mi avrebbe guardata negli occhi, e solo allora, forse, avrebbe riconosciuto in me un suo uguale. Di fronte alla mia nuova sostanza, che nessuna apparenza avrebbe potuto nascondergli, non avrebbe più osato presentarmi al professor Kleinkopf. Soprattutto non avrebbe più potuto servirsi di questa fotografia contro di me, mostrarla a Kleinkopf decantando le mie virtù come un imbonitore da fiera; non avrebbe più potuto, perché si sarebbe subito reso conto della differenza, lui che non desiderava affatto lasciarsi ingannare, che proprio nell’istante del tradimento supremo pretendeva da me la più assoluta lealtà. Quel sorriso era per lui. E lui lo sapeva. Mentre mostrava la fotografia a Kleinkopf, lo sapeva. Quando mi disse che Kleinkopf sarebbe dovuto diventare mio marito, sapeva quale sarebbe stata la mia reazione. Forse voleva scoprire fino a che punto ero disposta ad arrivare pur di compiacerlo. Naturalmente era certo che alla fine sarebbe stato lui a vincere.
Ma in fondo non ho il diritto di accusare mio padre, quando per tutta la vita, e soprattutto oltre, non ho fatto altro che ripercorrere le sue orme, portando alle estreme conseguenze ciò che lui stesso per primo mi aveva insegnato, dal talento letterario alla capacità di manipolare gli altri. Nel domandarmi fino a che punto potesse arrivare la sua ipocrisia, quando proclamava a gran voce di aver agito soltanto per il mio bene, mentre non poteva ignorare che io sapevo benissimo che cosa gli avesse promesso Kleinkopf in cambio del possesso legale della mia persona, non immaginavo ancora che io stessa, non molti anni più tardi, avrei finito per dipendere da menzogne simili alle sue per sopravvivere. Generare un sentimento intenso, amore o odio poco importa, e poi servirsene per i propri scopi: questa è la seconda lezione che ho dovuto apprendere novant’anni fa, e non è stato mio padre a insegnarmela. Lui e io ci assomigliamo, questo è vero, ma a differenza di me lui è rimasto un dilettante, sia nella letteratura, sia nella vita. Mio padre pensava di potermi piegare, ma si sbagliava. Non è stato lui a piegarmi. È stato Martin. Ma ciò che ha fatto, lo ha fatto solo perché io gliel’ho permesso.
“Circolo dei Poeti Immortali”: così si chiamava l’associazione letteraria di cui Martin si vantava di essere membro. Non mi era mai piaciuto quel nome, lo trovavo retorico e ridondante; il nome che gli amici di mio padre avrebbero potuto scegliere, quando si incontravano a casa nostra la domenica pomeriggio per bere caffè e liquori, leggendosi a vicenda lamenti in memoria di Lorelei, l’ondina del Reno, o improbabili romanzi storici sulle virtù della nazione germanica. Tuttavia, al contrario di mio padre, Martin non era un dilettante. Non lo era quando mi rivolse la parola in un caffè viennese, dopo avermi osservata declamare l’incipit di un mio racconto a un gruppetto di giovani sfaccendati, troppo intenti ad applaudire e a lanciare apprezzamenti sui miei capelli neri per ascoltarmi. Non lo era quando venne a prendermi la domenica successiva per portarmi all’opera, e si fermò educatamente sulla soglia della soffitta male illuminata che mi ostinavo a chiamare il mio studio, illudendomi che fosse molto bohemien, mentre in realtà era solo squallida. Non lo era quando mi baciò sulla bocca quella sera stessa, sussurrandomi che avrebbe fatto di me un’artista immortale, mentre io mi beavo al suono della sua voce, illudendomi che mi amasse. Desideravo con tutte le mie forze essere ingannata e Martin fece del suo meglio per accontentarmi, raccontandomi un’incredibile quantità di bugie, la maggior parte delle quali ho dimenticato. Su una cosa, tuttavia, non mi mentì mai. Credeva davvero nel mio talento. Se sono diventata una scrittrice, lo devo in gran parte a lui. Fu per questo che accettai il suo invito a un ricevimento organizzato dall’associazione, in un antico palazzo nei dintorni di Vienna, la sera del 20 settembre 1908.
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