Era stato Tolliver a eseguire la rianimazione finché l’ambulanza non era arrivata sul posto.
Il mio patrigno se l’era presa con Cameron per aver chiamato l’ambulanza, perché era costosa e, naturalmente, noi non avevamo nessuna assicurazione. Anche il dottore che voleva trattenermi in osservazione per tutta la notte si era sentito dire il fatto suo e non lo avevo più rivisto, né lui né nessun altro medico. Dal forum di Internet a cui sono iscritta, uno per chi è sopravvissuto a un fulmine, ho dedotto che comunque un dottore non mi sarebbe servito a molto.
Mi sono ripresa… più o meno. Ho una strana serie di linee rosse, simili a una ragnatela, lungo il torso e la gamba destra, la stessa che a tratti mi si indebolisce, e a volte ho la mano destra scossa da un tremito. Poi ci sono le emicranie, e le mie molte paure. Infine, riesco a trovare i morti oppure, se si sa già dove sono, posso determinare la causa del decesso.
Quella era la parte che interessava il professore. Era in possesso della documentazione relativa alla causa della morte di quasi ogni persona presente in quel cimitero, documentazione a cui io non potevo accedere, e in tal modo lui credeva di potermi esporre per quella ciarlatana che ero. Con aria quasi briosa, Nunley precedette il nostro gruppetto al di là della malconcia recinzione di ferro che aveva protetto il cimitero per così tanti decenni.
– Da dove vuole che cominci? – domandai, con assoluta cortesia. Dopo tutto, ero stata educata bene, finché i miei genitori non avevano cominciato a drogarsi.
– Questa andrà benissimo – rispose Clyde Nunley, rivolgendo un sogghigno ai suoi studenti e accennando alla tomba alla sua destra.
Com’era naturale, la terra non formava un tumulo, si era probabilmente appiattita da almeno centosettanta anni, e la lapide era indecifrabile, per lo meno a occhio nudo. Se mi fossi chinata e avessi usato una torcia, forse sarei riuscita a leggerla, ma a loro non importava quella parte, volevano sapere quello che avrei detto sulla causa della morte.
Il vago tremito, la vibrazione che avevo cominciato ad avvertire fin da quando mi ero avvicinata al cimitero, aumentò di frequenza non appena mi spostai sulla tomba. Avevo iniziato a sentire il ronzio nell’aria ancora prima di oltrepassare il cancello arrugginito, e adesso la sua intensità aumentò, fino a vibrare appena al di sotto della superficie della pelle. Era come avvicinarsi sempre di più a un alveare pieno di api.
Chiusi gli occhi, perché in quel modo mi riusciva più facile concentrarmi. Le ossa erano direttamente sotto di me, e mi stavano aspettando: indirizzai quel mio senso particolare verso il terreno sotto i miei piedi, e le informazioni scivolarono dentro di me con la familiarità di un amante.
– Gli è caduto addosso un carretto – dissi. – È un uomo sulla trentina, credo. Si chiama Ephraim, o qualcosa del genere. Si è schiacciato una gamba, è andato in stato di shock ed è morto dissanguato.
Seguì un lungo silenzio che mi indusse ad aprire gli occhi. Il professore aveva smesso di sogghignare e gli studenti erano impegnati a prendere annotazioni sul portablocco. Una ragazza mi stava fissando con occhi sgranati.
– D’accordo – disse il Dottor Clyde Nunley, con voce d’un tratto molto meno sprezzante. – Proviamo con un altro.
Colpito e affondato, pensai.
La tomba successiva risultò essere quella della moglie di Ephraim. Non furono le ossa a dirmelo, dedussi la sua identità dalla lapide simile a quella del marito e posizionata accanto alla sua.
– Isabelle – affermai con sicurezza. – È morta di parto – aggiunsi, sfiorandomi il ventre con la mano. Isabelle doveva essere stata incinta quando il marito aveva avuto il suo incidente. Una vera sfortuna. – Aspettate un momento – continuai, perché volevo identificare la vaga eco che stavo cogliendo al di sotto di quella emessa da Isabelle. Decidendo di non curarmi di quello che gli altri potevano pensare, mi tolsi le scarpe, anche se tenni indosso i calzini, in una sorta di compromesso con il freddo del clima. – Il bambino è lì con lei – mormorai poi. – Povero piccolo.
La morte del bambino era stata indolore.
Di nuovo, aprii gli occhi.
Il gruppo aveva modificato il suo schieramento; adesso gli spettatori erano più vicini uno all’altro, ma erano anche più lontani da me.
– Il prossimo? – domandai.
La bocca compressa in una linea sottile, Clyde Nunley accennò a una tomba tanto antica che la sua lapide spezzata era caduta a terra; il marmo era stato bianco, quando l’avevano installata.
Mentre mi spostavo verso il corpo successivo, affiancata da Tolliver, che mi teneva una mano sulla schiena, uno degli studenti obiettò:
– Lui dovrebbe starle lontano. E se le stesse passando in qualche modo le informazioni?
Si trattava dello studente più maturo, quello sulla trentina. Aveva i capelli castani, misti a qualche filo di grigio, il volto era stretto, le spalle erano quelle ampie di un nuotatore; da come stava parlando, non pareva che nutrisse effettivi sospetti nei miei confronti, il suo era un tono meramente oggettivo.
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