– Un’osservazione valida, Rick. Signor Lang, le dispiacerebbe spostarsi dal campo visivo della Signorina Connelly?

Fui assalita da un vago senso di ansia, ma mi costrinsi a rivolgere con calma a Tolliver un cenno di assenso.

Lui tornò indietro e si andò  ad appoggiare alla nostra macchina, parcheggiata all’esterno di ciò  che rimaneva della recinzione del cimitero. Mentre lo seguivo con lo sguardo, sopraggiunse un’altra auto e ne scese un ragazzo di colore munito di macchina fotografica; l’automobile era malconcia, ammaccata e graffiata, ma era pulita.

– Salve a tutti – esclamò il nuovo venuto, e parecchi degli studenti più giovani risposero con un cenno, mentre lui aggiungeva: – Mi dispiace di essere in ritardo.

– Signorina Connelly, questo è Clark – lo presentò il professore. – Mi ero dimenticato di dirle che il giornale studentesco desidera alcune fotografie.

Non pensavo che se ne fosse dimenticato. Semplicemente, non gli importava se io avessi o meno da obiettare al riguardo.

Riflettei per un momento e decisi che in effetti non mi importava. Ero pronta a scatenare una lite con Clyde Nunley, ma non per una questione tanto frivola.

– È tutto a posto – ribattei, scrollando le spalle, poi avanzai sulla tomba e concentrai tutta l’attenzione sul terreno sotto di me. Quel defunto era difficile da decifrare, perché era molto antico, le ossa erano sparpagliate e la bara si era disintegrata. Quasi non percepii la mia mano destra che cominciava a contrarsi, o la mia testa che prendeva a girarsi di qua e di là, i muscoli del volto che mi danzavano sotto la pelle.

– I reni – dissi infine. – Qualcosa che aveva a che fare con i reni.

Il dolore che avvertivo alla schiena aumentò di intensità fino a farsi intollerabile, poi scomparve e io riaprii gli occhi, traendo un profondo respiro e reprimendo l’impulso di girarmi per guardare verso mio fratello.

Uno degli studenti più giovani, una ragazza, era bianca come un lenzuolo, segno che l’avevo spaventata sul serio. Le sorrisi, cercando di apparire amichevole e rassicurante, ma non dovetti riuscire nel mio intento, perché lei si allontanò  da me di un altro passo. Sospirando, tornai a concentrarmi su quello che stavo facendo. Nella tomba successiva trovai una donna che era morta di polmonite, poi un bambino deceduto per l’appendice che si era infettata, un neonato con una malformazione cardiaca e un altro che aveva avuto un problema legato al sangue… sospettai si trattasse del secondo figlio di una coppia dal fattore Rh contrastante… e un ragazzino preadolescente che aveva avuto una malattia infettiva, probabilmente la scarlattina. Di tanto in tanto, sentivo il fotografo scattare una fotografia, ma la cosa non mi infastidiva, perché non mi curo del mio aspetto fisico, quando sto lavorando.

Dopo trenta o quaranta minuti, Nunley parve quasi convinto. Indicò infine una tomba nell’angolo del cimitero più lontana dal cancello, situata a ridosso della recinzione che, in quell’area, era crollata quasi del tutto. La lapide era parte nascosta dai rami che si protendevano su di essa e la luce era particolarmente scarsa; inoltre, io cominciavo a sentirmi stanca, perché quelle letture erano un procedimento che prosciugava le forze, e fu a questo che attribuii dapprima la lettura straordinariamente nitida. Riaprii gli occhi, accigliata.

– È una ragazza – dissi.

– Ah! – esclamò Nunley, Mister Mente Aperta, vedendo rivendicato il proprio scetticismo. Era così contento che esagerò nel dimostrare la propria soddisfazione per il mio errore. – Sbagliato!

– Non mi sbaglio – ribattei, anche se in realtà non stavo pensando a lui, agli studenti e neppure a Tolliver. Ero concentrata sull’enigma che c’era nel terreno, e su come risolverlo.

Mi tolsi anche i calzini, e con piedi che sembravano fragili, così esposti all’aria gelida, tornai ad avanzare sull’erba morta che si stendeva davanti alla lapide, cercando di ottenere una nuova lettura. Per la prima volta, notai che la terra era stata smossa di recente, anche se era stato fatto un tentativo per livellarla, come indicavano le aree appiattite, dove il terriccio morbido doveva essere stato colpito con una pala.

Bene, bene, bene. Rimasi immobile per un momento, lasciando che i sottintesi si facessero strada nel mio cervello, e intanto fui assalita da quel genere di minacciosa e strisciante sensazione che si ha nel rendersi conto che qualcosa esula dalla sfera delle proprie conoscenze, che uno sgradevole futuro sta per balzare dentro dalla porta posteriore e urlarti contro.

Ignorando i ragazzi che stavano borbottando fra loro, e i due studenti più anziani, che avevano avviato una conversazione a bassa voce, mi accoccolai per decifrare la lapide. Su di essa si leggeva:

JOSIAH POUNDSTONE, 1839-1858,

AMATO FRATELLO,

RIPOSI IN PACE.

Nessuna menzione di una moglie, o di un gemello, o…

D’accordo, forse il terreno si era smosso un poco e il corpo sepolto accanto a quello di Josiah si era spostato vicino al suo.