«Ma certo: vi hanno insegnato solo lo stampato, le lettere degli scritti ufficiali. Quando si scrive per conto proprio, con una penna invece che con un pennello, si uniscono tutte le lettere, dopo averle semplificate per essere più rapidi. Ecco questa è la A, si unisce alla B, questa è la B semplificata, poi alla C, avete capito?» Arduin le fece il disegno di tutte le lettere semplificate, scrisse il proprio nome, un paio di frasi semplici sulla pergamena, quella con l’uccello fatto di bacchette, e poi gliela regalò. Chiara puntò il ditino, interrogativa, sull’uccello.
«Progetto di macchina volante» spiegò Arduin. «Ne faccio in continuazione.»
Chiara annuì di nuovo. Una macchina volante. Ma certo.
Era evidente. Qualcosa che avrebbe volato lenta e maestosa come un airone, con cui si sarebbe potuto sorvolare le risaie e le colline, guardando la propria ombra proiettata dal sole sull’acqua e sulla terra.
Chiara salutò Arduin con la manina e corse via, facendo scappare un paio di galline al suo passaggio. Attraversò i cortili, le cucine, sentendo nel cuore una sensazione nuova, mai sentita prima. Era qualcosa di più piccolo della felicità, più piccolo, ma anche più prezioso, qualcosa su cui la felicità poteva essere costruita. Era la fierezza di essere sé stessa, la certezza di non essere una reietta: qualcosa senza cui nessuna felicità era possibile. Aveva qualcuno che la capiva. Qualcuno che sapeva cosa lei provava. Zia Fiamma e zio Erik le volevano bene, si sarebbero gettati nel fuoco per lei, ma le loro anime erano più distanti dalla sua delle stelle e delle nuvole.
Chiara salì alle stanze dei bambini, sulle scale si scontrò con la balia.
«Vi abbiamo cercato...» cominciò la balia.
«Ero nel cortile delle galline» urlò Chiara di rimando, senza fermarsi.
Corse via dal nuovo brusio che si stava rapidamente formando
«Ha parlato... ha parlato... parla... Ma certo che parla, anche suo padre, mio fratello ha parlato tardissimo, l’avevo detto io che non c’era da preoccuparsi, ha cominciato a parlare tardi, ma in maniera impeccabile... Ehi, la principessa parla... be’, meno male, bruttina sì, ma almeno non è muta...»
Nella corsa si scontrò anche con Antrin e Gesciua.
«Sono una strega» li minacciò. «Levatevi di torno o trasformo te in un rospo e te in una biscia.»
«Sai parlare!» si stupirono i due.
«Da oggi siete miei schiavi» li informò Chiara scappando via.
«Va bene» si arresero i due, con reverenziale timore.
Nella stanza dei bambini c’erano grandi ceste di giochi. Lei non aveva mai giocato con nulla, aveva sempre guardato a quei mucchi di oggetti con una vaga nostalgia di quello che avrebbe dovuto essere un’infanzia normale, ma troppo impegnata a stare male o sentirsi colpevole per poter fermarsi a giocare con qualche cosa. Questa volta invece prese le ceste e le capovolse, una dopo l’altra. Erano otto. C’era di tutto: bambole con le vesti di broccato, carrettini intagliati, palle di stoffa e di cuoio, piccole spade, piccoli archi, piccole pentole, piccole brocche. Finalmente, in fondo all’ultima, trovò un sacchetto di stoffa con dentro i tre giocattoli di legno grezzo – barchetta, bambola, cavallino – che lei non ricordava di aver visto mai.
Che lei credeva di non ricordare. Ora che li aveva davanti, ricordò confusamente: tre sagome in fondo alla sua culla.
Chiara li strinse tra le mani, insieme alla pergamena, come un tesoro. La balia l’aveva finalmente raggiunta.
«Cercavate quelli?» chiese la balia. «Non avete mai giocato con niente e cercavate quelli! Non so chi ve li abbia regalati.
Sono così piccoli e brutti! Li ho messi in quello straccio, per fortuna non li ho buttati via!Perché vi piacciono tanto?»
Chiara non rispose. Scappò via di nuovo, via da tutti, via sui tetti. Rimise i tre giocattoli insieme alla pergamena nel sacchetto di stoffa, e lo strinse tra i denti mentre si arrampicava sulle grondaie, in alto, fino ai comignoli, insieme ai gatti, per vedere le prime stelle che si riflettevano sulle risaie.
Lassù si sedette, allargò le gambe e posò sulla stoffa di seta ormai sudicia della sottana, ricamata con le api d’oro, la barchetta, la bambola e il cavallino.
Il mondo era incomprensibile, imprevedibile, ma poteva essere magnifico.
Affascinante.
Pieno del fascino degli occhi scuri di Arduin e di quei giocattoli di vecchio legno malamente dipinto. La bambina passò il tempo a scorrere il ditino sulle scanalature del legno, su quello che restava di qualche pennellata di colore, fino a quando zia Fiamma non arrivò a stanarla e trascinarla giù, per cambiarle l’abito e farla mangiare a tavola, come una persona civile.
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