Chiara scese e mangiò a tavola come una persona civile. Per la prima volta da anni ritirò i suoi aculei di piccolo istrice scontroso e permise a zia Fiamma di abbracciarla, finalmente consapevole di non essere più, di non essere mai stata, un pericolo, di non essere più, di non essere mai stata, un funghetto involontariamente velenoso, un inintenzionale cucciolo di scorpione.
9
Arduin restò qualche mese. La sera spesso spiegava tutto quello che sapeva sugli Orchi, le usanze, i miti, i riti. Gli Orchi amavano il fuoco sopra ogni cosa, era il loro elemento, come l’aria lo era per gli Elfi, l’acqua per gli Uomini, la terra per i Nani. Arduin conosceva la lingua del nemico storico degli Uomini, e la insegnò a tutti i capi militari perché potessero comprenderla. Spiegò le gerarchie militari, quelle civili e quelle sacerdotali, essendo la casta dei sacerdoti quella in assoluto più dotata di potere. Aggiunse un’ultima casta presente tra gli Orchi, quella dei Maghi del Fuoco, segreta, nascosta, casta di cui tutti sapevano poco o nulla, salvo che subiva periodiche persecuzioni e che era ovunque temuta, ma anche segretamente amata, accusata di tutti i mali, ammantata di tutte le speranze. Si diceva che la stirpe dei maghi orchi avesse avuto origine nel Monte Sacro degli Orchi, nel regno orientale. Il segno di riconoscimento dei maghi orchi era un cerchio che inscriveva un quadrato che inscriveva un cerchio che inscriveva un quadrato e così via: il simbolo orco dell’infinito.
«Che vuol dire il simbolo orco dell’infinito?» domandò la voce di zio Erik.
«Gli Orchi, come gli Elfi, avevano un simbolo per indicare l’infinito. I Nani e gli Uomini non sanno nulla del genere. Se devono scrivere dell’infinito, lo scrivono con le lettere che ne formano il suono, come qualunque altra parola» rispose.
«E il simbolo degli Elfi qual era?» chiese di nuovo lo zio.
«Una spirale aurea. Il cuore delle conchiglie, del guscio delle chiocciole, per intenderci. Una spirale dove a ogni giro la distanza tra le spire raddoppia, mentre nella spirale detta geometrica resta costante» concluse Arduin, in un mormorio di educato fastidio che segnalò che tutte quelle elucubrazioni erano giudicate eccessive dai capi militari.
Appollaiata da qualche parte, con l’orecchio appoggiato sui muri, Chiara non perdeva una parola, approfittando del fatto che era troppo piccola per essere obbligata a seguire le lezioni del precettore che, adesso se ne rendeva conto, erano di una noia abissale.
Già la prima notte dell’arrivo di Arduin, Chiara andò a recuperarsi le lettere di suo padre: questa volta non si trattò di un prestito d’uso, ma decise di tenerle per sempre con sé.
Imparò a scalare una delle piccole torri che sovrastavano i cortili interni, un’antica piccionaia, che conservava nelle lussureggianti chiazze di sterco di uccello i segni della sua passata funzione. Chiara si portò le lettere del padre, la pergamena di Arduin, una candela, i tre giocattoli e cominciò a decifrare.
Andò per logica, le prima due parole dovevano essere Cara Chiara o Cara figlia, sì, era figlia, perché non c’erano maiuscole, quindi quella specie di libellula spiaccicata doveva essere una
F e quell’intreccio di righe era una A maiuscola. Adorata figlia.
Suo padre non doveva mai aver vinto una gara di calligrafia, però lettera per lettera Chiara cominciò pazientemente a decifrare.
Quando non capiva, passava direttamente alla parola successiva, rinunciando a dare un qualsiasi senso, sul momento, ma limitandosi a identificare le singole lettere, quelle che ormai riconosceva.
Dopo qualche settimana cambiò metodo: incaricò Antrin e Gesciua, diventati suoi devoti servitori, di procurarle pergamena, penna e inchiostro, con cui cominciò a copiare le lettere, e riprodusse fedelmente ogni pezzetto dritto, ogni curva e ogni puntino, rifacendo fedelmente i tratti larghi, quelli stretti e quelli più marcati. Questo la aiutò a decifrare, non solo, ma capì anche che quando suo padre parlava di cose atroci i tratti erano più forti, più calcati: l’inchiostro sprofondava in una crepa sulla pergamena; quando scriveva di sua madre o di lei, la scrittura era più lieve, quasi tonda, molto più facile da capire.
10
In una notte particolarmente limpida e luminosa, mentre una luna piena ed enorme offuscava le stelle, Chiara si spinse di nuovo fino alla muraglia che separava la Cerchia Media – quella degli artigiani – da quella Esterna – quella dei poveri.
Mentre si sporgeva scivolò sul muschio, perse l’equilibrio e cadde. Fu una caduta di poche spanne, che la fece atterrare su una delle numerose tavole di legno che, coperte di terra e ortaggi, sporgevano orizzontali dai muraglioni: era un volonteroso orto aereo nato per fornire qualche striminzita cipolla a chi non poteva comprarsela e le salvò la vita. Chiara cercò di risalire, ma quel punto era troppo viscido, rovinato da tutta l’acqua di generazioni di annaffiature. Visto che era impossibile ritornare verso l’alto, la bimba scese, aggrappata alla scala di corda. Incontrò altre tavole coltivate a melanzane, tetti di case pieni di spighe, scansò panni stesi e arrivò a terra. Velocissime creature le corsero incontro, l’annusarono e scapparono via.
Erano più veloci dei gatti e avevano un manto che splendeva sotto la luna. Anche se non le aveva mai viste prima, anche se era sicura di non averle mai viste prima, Chiara si scoprì nel sapere che erano furetti, allevati dentro le case per scacciare i sorci, far giocare i bambini, rimpolpare le polente invernali e fornire un pezzetto di buona pelliccia per foderare i calzari.
Chiara corse per i vicoli, si arrampicò su tutte le tavole, ma il bordo alto del muro era ovunque viscido e invalicabile. Il cancello che separava la Cerchia Esterna da quella Media di notte era chiuso. Chiara cominciò a fare i conti con la possibilità, con la certezza, di essere scoperta. L’avrebbero beccata. Zio Erik le avrebbe parlato a lungo, con le lacrime agli occhi, spiegandole e rispiegandole la responsabilità e il senso del dovere, tutta la preoccupazione che la sua fuga aveva causato. La zia e la balia avrebbero finalmente capito che lei passava le notti a gironzolare sui tetti. Una volta che l’aveva pescata a scendere dalla finestra, zia Fiamma aveva minacciato di farle mettere le sbarre.
Mentre correva disperata con i piedini che rimbombavano sull’acciottolato, Chiara si lasciò distrarre dall’angoscia e la sua capacità di preveggenza inciampò. Un’ombra uscì bruscamente dal buio e l’agguantò, talmente veloce che lei non poté evitarla. Chiara sentì le mani sulle spalle. Erano forti. Alzò gli occhi per vedere chi la teneva. Era un soldato. Lei cercò di divincolarsi, con il cuoricino che pulsava all’impazzata.
«Tu sei la figlia del re» le disse severo l'uomo. «Non puoi correre per le strade di notte. Se ti succedesse qualcosa sarebbe un disastro per ogni cittadino di questo regno, sarebbe una ferita per tutti quelli che amano tuo padre. Devi restare nel tuo letto al sicuro. Ora ti aiuto a tornare a casa tua e tu poi ci resterai.»
Chiara si rasserenò immediatamente: era solo finita tra le grinfie di uno dei suoi innumerevoli custodi.
L’uomo le agguantò la mano e si incamminarono. A un tratto l'uomo la tirò dentro un vicolo piccolo, che all’inizio le era sfuggito.
«Di qua» disse asciutto.
«Non è di qua» protestò Chiara.
«Sì, è di qua. Devo farti vedere una cosa. Guarda. Siamo arrivati.»
C’era una specie di giardinetto, un posto senza filari di pomodori.
«Guarda» le disse il soldato. «Questo è un camposanto, qui riposano i morti. Vedi, su questa tavoletta c’è scritto il nome e quando uno è morto. Quelli lì, quelli pieni di fiori, ci hanno messo anche pannocchie e mele, sai da queste parti sono gente un po’rozza. Ecco, quelli sono i tuoi nonni, il papà e la mamma di tuo padre.»
Chiara restò folgorata. Si portò le mani alla bocca per soffocare un gemito. Era bellissimo. Non le era mai venuto in mente che i morti fossero da qualche parte. Sua madre era stata bruciata, era nel vento, nelle nuvole, invece i nonni erano lì, coperti di fiori e verdura, segni di un affetto corporeo e tangibile.
Era come se le parole di suo padre avessero improvvisamente acquistato il dono della materialità.
La parte delle lettere riferite al nonno e alla nonna, Chiara era riuscita a decifrarla, doveva essere un argomento che dava a suo padre serenità, perché in quelle righe la sua scrittura era stata tonda e comprensibile. La ‘nonna’ e ‘il nonno’ raccontati nelle lettere erano lì, la mamma del suo papà e l’uomo che gli aveva fatto da padre. Erano morti, certo, ma dotati di corporeità, e ricoperti di tributi di affetto dotati di colori e odori.
Chiara si lasciò scappare uno dei suoi rarissimi sorrisi.
Passò a lungo le dita sulle tavolette con i nomi, avendo l’impressione di essere un po’ meno orfana. Si guardò intorno, cercò qualcosa di bello da mettere sulle tombe dei nonni.
Doveva essere qualcosa di bello e anche di prezioso. Gli altri avevano messo le loro pannocchie e le loro melanzane, era tutto quello che avevano.
Dalla tasca del grembiule tirò fuori il cavallino. Era il preferito tra i suoi tre giocattoli. Lo sfiorò a lungo, con la punta delle dita. Lo ninnò per qualche istante – sarebbe stata l’ultima volta – e poi lo posò lì. Il soldato rimase immobile e impenetrabile accanto a lei.
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