L’evento ebbe comunque un insperato effetto positivo. Da quel momento fu universalmente stabilito che il suo ritardo nel parlare fosse dovuto all’impressione provocata da quelle miriadi di feriti e agonizzanti. Nessuno si ricordò che lei non aveva mai parlato nemmeno prima, e i tentativi per spingerla a pronunciare qualche sillaba furono sospesi. Antrin e Gesciua furono duramente redarguiti tutte le volte che vennero pescati a dirle che era troppo scema anche solo per riuscire a spiccicare il proprio nome.
6
Cinque mesi dopo il ritorno di quanto restava dell’esercito di Varil, arrivò Arduin, figlio minore della regina di Daligar e suo unico erede maschio, visto che il fratello gemello Joss era morto in quella terribile battaglia di cui tutti avrebbero sempre conservato un’atroce e fiera memoria: si erano massacrati e li avevano fermati.
L’arrivo di Arduin fu preceduto da euforici preparativi. La reggia di Varil fu ulteriormente tirata a lucido, e Chiara, già timida di suo, si trovò a essere ulteriormente intimidita.
Il principe apparve in lontananza. Chiara constatò con stupore che si trattava di un ragazzo. Era quello che aveva praticamente vinto la battaglia contro gli Orchi, sempre che si potesse parlare di vittoria. Per essere più esatti, da quanto Chiara aveva capito, era quello che, mentre zio Erik se ne stava ferito nel fango, era intervenuto a impedire che tutta la faccenda si trasformasse in un definitivo disastro.
Chiara si era aspettata una specie di gigante, un tizio grande con barba, baffi, una corazza che luccicava al sole.
Ovunque si ripeteva quanto il giovanissimo principe fosse straordinariamente bello. Chiara non aveva mai veramente capito quali erano i criteri perché qualcuno fosse classificato bello o brutto: lei si limitava a trovare belle le facce sorridenti e brutte quelle corrucciate, ma prese atto del giudizio generale e collettivo che la intimidì ancora di più.
Tutte le fanciulle del paese, inclusa Gonia, la cugina grande, si erano messe in ghingheri. Anche Chiara e Aila erano state lavate, pettinate con i fiocchetti sulle treccine, vestite a festa, con due vestitini di velluto chiaro con sopra ricamate le api, simbolo dell’ormai defunto re di Varil; in bianco quelle di Aila e in oro quelle di Chiara, vera figlia del re scomparso.
Tutta la mattina era stata impiegata a insegnare la riverenza.
Testa alta, sguardo alto, si piegava solo il ginocchio, come un passo di danza, tenendosi su la sottana, perché l’orlo non finisse nella polvere. Bisognava tenerla giusta, perché non si doveva sporcare, me era vietato mostrare le caviglie, o peggio le ginocchia, una specie di abilità da giocoliere.
«Sarete voi ad aprire il corteo, principessina» le spiegò la balia, lisciando con le mani il corpetto e la sottana con le api d’oro.
Chiara rispose con un giudizioso cenno di assenso, poi si mise ad aspettare pazientemente il momento in cui tutti avrebbero guardato da un’altra parte. C’era sempre un momento in cui nessuno guardava dalla sua parte ed era allora che si poteva tagliare la corda. Quando il principe arrivò alla porta grande della Cerchia Interna, tutti lo fissarono estasiati e Chiara schizzò via. Scivolò dietro le sottane delle tuniche della festa delle dame e raggiunse il cortile interno. Quando la balia se ne accorse e si gettò all’inseguimento, ormai era tardi. Chiara scivolò nelle cucine, corse in mezzo a ciclopici paioli di rame in fila come fanti in parata, uscì dalla porta posteriore, traversò i lavatoi, sbucò negli orti e si infilò nel casotto di legno che serviva per tenere gli attrezzi. Lì, finalmente, con il cuoricino che le scoppiava nel petto, si accasciò per terra, in mezzo a zappe, falci e rastrelli.
Se ne restò lì, al buio, a guardare i raggi di sole che entravano dalle fessure tra le assi del gabbiotto. Aveva ucciso la mamma e non sapeva come aveva fatto.
Avrebbe dovuto fermare gli Orchi e non sapeva come fare.
Suo padre le aveva scritto che l’amava e aveva nascosto il messaggio in una criptica collezione di obliqui segni che non somigliavano all’abbecedario.
Il mondo era incomprensibile, imprevedibile e triste.
Quando andava bene. Qualche volta le cose andavano male e allora era atroce.
All’interno della luce c’erano miriadi di puntini di polvere che si muovevano con un moto lento e maestoso. Chiara seguì le evoluzioni di un moscerino. Sbadigliò, si appisolò, sognò un posto buio con i raggi di sole che illuminavano dei puntini che però non erano polvere, perché si ingrandivano fino a diventare lettere, lettere tonde e morbide che danzavano, si urtavano e si univano, infine, ormai deformi, in incomprensibili parole sbilenche e ossute. Quando si svegliò, Chiara si accorse che la luce era diminuita, i raggi erano obliqui, al tramonto. Il moscerino doveva essersi addormentato anche lui, ed era ormai disperso. La bambina si alzò, si stiracchiò, si accorse di avere fame.
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