L’uomo si fece avanti e issò in piedi Ryke con mani grosse e rudi; Ryke si appoggiò al muro, aspettando che le gambe smettessero di tremargli, e nel frattempo Col Istor continuò a fissarlo con freddo interesse. Quell’uomo non sembrava affatto un signore della guerra. Tutti

sapevano che la guerra era sempre giunta dal nord, ma da qualche anno era stata temporaneamente bloccata da una tregua fra Arun e Anhard, lo Stato che si stendeva più a nord, oltre le montagne.

Attento a cogliere il minimo segno che annunciasse la ripresa delle ostilità e pronto a bloccare i nemici provenienti da Anhard che arrivavano a razziare i villaggi, Athor di Tornor non aveva dato credito alle voci che i mercanti provenienti dal sud avevano diffuso nella Rocca. Essi riferivano che un condottiero mercenario stava salendo verso nord, proveniente dalle pacifiche terre agricole di Arun, dai dorati campi di grano del Galbareth. E improvvisamente quell’uomo aveva attaccato la Rocca di Tornor, e aveva vinto.

– Portalo con noi – ordinò ancora Col.

I tre si avviarono attraverso il cortile interno e in direzione delle porte. Anche se il vento gelido lo aveva in certa misura aiutato a riscuotersi, Ryke aveva difficoltà a camminare a causa della neve scivolosa. Le truppe di Col erano impegnate a ripulire il castello. C’era una fila di cadaveri disposti lungo le mura, la maggior parte dei morti indossava l’armatura, uno però portava ancora il grembiule di cuoio proprio dei cuochi, sebbene fosse impossibile dire di quale di essi si trattasse.

Lungo il tragitto, Ryke cadde al suolo una volta, e gli altri attesero imperturbati che si rialzasse faticosamente in piedi prima di proseguire.

Attraversarono il casotto di guardia interno, passando sotto i denti di ferro della grata della pusterla e in mezzo a guardie che scattarono sull’attenti; parecchie di esse indossavano mantelli con lo stemma della fiamma, proprio della Rocca di Zilia, la più orientale delle Fortezze, distante tre giorni di cavallo da Tornor, che evidentemente era stata conquistata da Col. Ryke li osservò con rammarico. Probabilmente anche Ocel, il signore di quella Rocca, era morto insieme alla sua numerosa famiglia.

Altre guardie stavano sciamando nel cortile esterno, fra le due cinte di mura; una di esse trasportava una bracciata di frecce usate, reggendole per l’estremità piumata, cosa che avrebbe rovinato le piume stesse e la qualità delle frecce. Era chiaro che quei meridionali non capivano nulla dell’arte di tirare con l’arco, e questo portò Ryke a chiedersi se la Rocca avrebbe potuto resistere più a lungo disponendo di un più elevato quantitativo di frecce. Gli armieri della Rocca negli ultimi tempi avevano garantito un abbondante rifornimento di frecce da caccia, ma da quando era stata stipulata la tregua avevano praticamente cessato di produrre frecce da guerra.

Alla fine, giunse alla conclusione che non sarebbe cambiato nulla, anche se la guarnigione avesse avuto a disposizione un maggior numero di frecce.

In cima alla torre, la bandiera di Athor, una stella rossa a otto punte in campo bianco, si agitava ancora sotto la sferza del vento; mentre Ryke la guardava, una piccola sagoma scura s’inerpicò su per il palo che la reggeva e la tirò giù. Consapevole che Col lo stava osservando, Ryke distolse lo sguardo, abbassandolo sulle manette che gli stringevano dolorosamente i polsi. Il gruppo proseguì in direzione del muro meridionale, dove il recinto dei cani era stato costruito ai piedi della torre di guardia. Era costituito da una piccola staccionata di legno, coperta da una tenda di tela che garantiva una zona d’ombra; era stato fatto costruire da Athor per la sua cagna da caccia e i suoi cuccioli, ma in quel momento al suo interno non c’erano cani. Avvolto in una coperta sporca, c’era invece il principe Errel. Giaceva disteso sulla pietra cosparsa di escrementi. Il suo volto era bluastro per il freddo e segnato da ferite intorno alla bocca, i suoi occhi erano chiusi e soltanto il costante sollevarsi e abbassarsi del petto permise a Ryke di capire che era ancora vivo.

– Non fa una grande impressione – commentò l’uomo di cui Ryke ignorava il nome.

– I miei uomini lo hanno intercettato sulla strada occidentale, diretto verso la Rocca di Cloud. Prima di essere catturato ne ha uccisi quattro con quel suo lungo arco. Adesso però lo abbiamo domato.

– Che cosa vuoi? – domandò Ryke, desiderando serrare entrambe le mani intorno al collo massiccio del condottiero.

Col Istor si dondolò avanti e indietro sulla pianta dei piedi e sfoggiò un allegro sorriso. Sotto la cotta di maglia, così leggera e insieme robusta da rivaleggiare per qualità con quelle fabbricate nel settentrione, indossava abiti di cuoio e una tunica di lino.

– Potrei ucciderlo – disse, – o farne un servitore, magari un porcaro. Oppure potrei tenerlo in vita, in catene.

– Cosa vuoi? – chiese ancora Ryke.

L’altro uomo gli sferrò un manrovescio in piena faccia, un colpo così violento che lo mandò a sbattere contro il muro; con la testa che girava e luci intense che gli saettavano come frecce davanti agli occhi, lui si costrinse a ricacciare indietro un senso di nausea e a rimanere in piedi.