Quando mi sono svegliata stamattina... Oh, questa è un’altra cosa... Probabilmente pensavate che non avessi bisogno di dormire, giusto? Be’, all’inizio è quello che ho pensato anch’io. 

Ma per come me l’hanno spiegata i miei genitori, siamo, in un certo senso, più vivi che mai, siamo fatti di energia nella sua forma più pura. E dopo una lunga giornata di creazioni e apparizioni e, be’, qualsiasi altra attività le persone Qui scelgano di svolgere, la nostra energia ha bisogno di una piccola sosta, un sonnellino per riposare, per recuperare e rigenerarsi... il che, di nuovo, non è diverso dalla vita sulla Terra. 

Insomma, quando mi sono svegliata stamattina con Buttercup che scodinzolava e mi leccava la faccia, nonostante sia una maniera abbastanza piacevole di svegliarsi, l’ho spinto via, tirandomi la coperta sulla testa, e rigirandomi così da dargli le spalle. I miei occhi si sono stretti al massimo e ho tentato di immergermi di nuovo nel mio sogno mentre Buttercup continuava a mugolare e guaire e toccarmi con la zampa. 

E proprio quando stavo per cacciarlo via di nuovo, ecco che mi sono ricordata: Buttercup era eccitato per me. 

Tutti erano eccitati per me. 

Da quando ero arrivata Qui, ero stata quasi sempre impegnata ad abituarmi alla mia nuova vita, integrandomi di nuovo nella mia famiglia, e fondamentalmente cercando di imparare 

come funzionano le cose in questo posto. E ora che mi ero ambientata, era arrivato il momento del mio primo giorno di scuola (sì, abbiamo la scuola Qui... non è tutto rose e fiori, 

sapete), e visto che tutti si mostravano così eccitati al riguardo, mi è sembrato doveroso mostrarmi eccitata anch’io. 

Abbastanza eccitata da alzarmi dal letto, prepararmi, e avere il tempo di far apparire qualcosa di carino da mettermi, così potevo, almeno secondo i miei genitori, andare in un 

posto dove avrei: ‘Incontrato nuovi amici, imparato nuove cose, e in men che non si dica mi sarei ritrovata a riprendere dal punto esatto in cui avevo interrotto a casa!’ 

E per quanto non ne fossi convinta, per quanto fossi pronta a scommettere qualsiasi cosa che non si sarebbe rivelato nemmeno lontanamente vero, mi sono limitata a sorridere e assentire. Volevo che pensassero che ero impaziente quanto, evidentemente, lo erano loro. 

Non volevo che sapessero quanto mi mancava la mia vecchia vita laggiù a casa – mi mancava così tanto che ormai era una specie di dolore costante dentro di me –, e nemmeno che ero praticamente strasicura che questa scuola, non importa quanto fosse favolosa secondo loro, non avrebbe mai potuto competere con quella che mi ero lasciata alle spalle. 

Così, dopo essermi gustata una frugale colazione con mamma e papà (e no, in realtà non abbiamo più bisogno di mangiare, ma rinuncereste al piacere dei cereali con dentro le toffolette se non foste costretti?), mi sono messa in cammino. 

All’inizio indossavo la classica uniforme da college: camicia bianca, gonna a quadri, giacca blu, calze bianche e scarpe carine, visto che ho sempre desiderato frequentare una scuola che richiedesse l’uniforme, ma poi per strada ci ho ripensato e l’ho sostituita con un paio di jeans aderenti, ballerine e un soffice lanuginoso cardigan blu indossato sopra un top con il logo del mio gruppo preferito. 

Sul serio, far apparire le cose è davvero facile... o almeno lo è Qui. Basta pensare a quello che vuoi, qualsiasi cosa, stampartelo bene in mente... e voilà... come per magia, ce l’hai! 

Comunque, ho continuato a procedere così, cambiando e ricambiando, avanti e indietro, i due look. Facevo due passi come una ragazza da college, e altri due vestita come una dodicenne superstilosa. Calcolavo che sarei rimasta coi vestiti che avevo addosso nel momento in cui avrei raggiunto il campus, sapendo che potevo sempre cambiarmi in un istante se quella si fosse rivelata la scelta sbagliata. 

Poi, a un certo punto della strada, l’ho visto. 

L’Osservatorio. 

Il posto su cui i miei genitori mi avevano messo in guardia. 

Ripetevano che non avrebbe portato a niente di buono. Che mi sarei fissata di nuovo, mentre invece avevo bisogno di raccogliere le energie per andare avanti, ambientarmi, e accettare il fatto che, mi piaccia o no, adesso sono ufficialmente un’abitante di Qui e Ora. Sostenevano che era giunta l’ora di voltare le spalle alla vecchia vita e impegnarmi ad accettare la vita dopo la morte. 

«Ti sei trattenuta sulla Terra abbastanza» aveva detto mio padre, rivolgendomi il solito sguardo comprensivo e allo stesso tempo preoccupato. 

Mentre mia mamma assisteva, occhi socchiusi e braccia conserte, senza lasciarsi incantare nemmeno un secondo dalla scusa della ‘pura e semplice curiosità’. 

«Tua sorella ha la sua lezione da imparare, il suo destino da compiere, e non spetta a te interferire» aveva detto, rifiutandosi di essere accondiscendente o anche solo guardare le cose dal mio punto di vista. 

Ma anche se le loro intenzioni erano buone, vedete, loro non conoscevano affatto mia sorella bene quanto me. Non sapevano che lei aveva bisogno di me in un modo che loro non avrebbero mai potuto capire. Oltretutto, se è vero che il tempo non esiste più, allora non c’è pericolo di fare tardi a scuola, giusto? Perciò andiamo, che cosa potrebbe succedere nella peggiore delle ipotesi? 

Più che convinta, ho fatto una piccola deviazione e mi sono infilata dentro, agguantando un biglietto dal distributore sul muro prima di accodarmi a una lunghissima fila. Circondata da un bel mucchio di teste grigie, in brodo di giuggiole al pensiero dei nipoti che non vedevano l’ora di guardare. Infine sullo schermo in alto ha lampeggiato il mio numero e io ho marciato dritta dentro il cubicolo appena liberato, ho chiuso la tenda alle mie spalle, mi sono accomodata sul duro sgabello di metallo e ho digitato la destinazione desiderata, esaminando attentamente lo schermo finché non l’ho trovata. 

Ever. 

Mia sorella. 

Capelli biondi, occhi azzurri, mia sorella mi assomiglia unsacco, tranne che per il naso. È stata così fortunata da prendere il naso perfettamente dritto di nostra madre... mentre io ho preso quello, ehm, più tozzo di mio padre. 

«Un naso che ha carattere» amava dire mio padre. 

«Non ce n’è un altro così, da nessuna parte... tranne che sulla tua faccia!» diceva, acchiappandolo con uno di quei pizzicotti che riescono sempre a farmi ridere. 

Ma anche se avevo l’impressione di fissare lo schermo da un bel po’ di tempo, non è che stessi vedendo poi così tanto. 

O perlomeno, niente d’importante in ogni caso. Niente che potesse definirsi da infarto (e no, il mio cuore in realtà non batte più, è tanto per dire). In sostanza quello che vedevo era una ragazza che si muoveva, cercando in ogni modo di far credere a chiunque attorno a lei di essere una persona perfettamente normale, che viveva una vita perfettamente normale, quando la verità è, lo so per certo, che era tutto tranne che questo. 

Eppure, non potevo smettere di guardare. Non potevo impedire a quella vecchia sensazione di riavvolgermi. 

Una sensazione per cui il cuore mi si gonfiava così tanto che, ne ero certa, sarebbe scoppiato scavandomi un grande buco proprio in pieno petto. 

Una sensazione per cui la gola mi andava in fiamme e m’impediva di parlare, gli occhi incominciavano a lacrimare, e io mi riempivo di nostalgia, uno struggimento così soffocante che avrei dato qualunque cosa per tornare indietro. 

Indietro sulla Terra. 

Nel posto a cui appartenevo veramente. 

Perché a dire il vero, per quanto mi stessi sforzando di fare la coraggiosa e di far credere a tutti che mi stavo ambientando bene e che stavo imparando sul serio ad amare la mia nuova vita Qui... il fatto è che non era vero. 

Non mi stavo ambientando. 

Non stavo imparando ad amare un bel niente. 

No. Per niente. 

In effetti, avendone la possibilità, avrei fatto qualunque cosa per trovare di nuovo quel ponte e attraversarlo di corsa senza voltarmi indietro nemmeno una volta. 

Avrei fatto qualunque cosa per tornare a casa, alla mia vera casa, e vivere di nuovo accanto a mia sorella. 

E non c’è voluto troppo tempo davanti allo schermo per capire che Ever si sentiva come me. Perché non solo le mancavo, ma era anche piuttosto evidente che aveva bisogno di me quanto io ne avevo di lei. 

Ed è bastato questo per convincermi di aver fatto la cosa giusta.

È bastato per non sentire l’ultimo pizzico di rimorso per aver deluso i miei genitori ed essermi infilata di nascosto nell’Osservatorio. 

Perché a dire il vero mi sentivo giustificata. 

A volte devi semplicemente agire per conto tuo. 

A volte devi fare quello che dentro di te sai che è giusto.