In verità non si era affatto appoggiata al banco da taglio sul quale i due stavano giocando. Si domandò se Paxe avesse visto arrivare Isak. Lanciò uno sguardo a Kaleb. Anche questi, come lei, non era originario della città; Kaleb era un Asech dal colorito scuro e gli zigomi alti; piccole pietre colorate luccicavano ai lobi delle sue orecchie. – Il Maestro della Piazza è nella Piazza d’Armi? – domandò Sorren.
L’uomo annuì senza sollevare gli occhi dal tavolo.
Non appena fu uscita dalla casa, fu nuovamente assalita dal caldo. Attraversò lesta il cortile posteriore dove le piastrelle che lo lastricavano formavano un disegno diverso da quello che adornava il cortile anteriore. I vialetti erano fiancheggiati da filari di meli i cui frutti erano ancora acerbi. Sorren avanzò sotto i rami distesi, ricoperti di boccioli. Tutt’intorno le mattonelle erano cosparse di petali.
Terminata la fila di alberi, Sorren si chinò a raccoglierne una manciata, dapprima tenendosi in equilibrio su di un piede, poi sull’altro. Ogni mattina Lalith ripuliva il cortile della coltre di petali, e puntualmente, tre ore dopo, le mattonelle tornavano a essere rosa. Sorren si incamminò in direzione della Piazza d’Armi. Il cancello d’accesso si trovava dalla parte opposta, ma lei non aveva alcuna intenzione di entrarvi; non poteva farlo non essendo un soldato. Giunta che fu all’alta palizzata rossa, si issò su di essa e vi si sedette.
Da quella postazione favorevole riusciva a vedere tutta la Piazza, dal cancello all’armeria. Una ventina di persone vi si stavano allenando, disposte in circolo intorno a un piccolo nodo umano in movimento. Il centro di quel nodo era Paxe, attorniata da sei Guardie. Queste le si avventavano addosso e lei schivava l’assalto, si piegava e poi si volgeva atterrandoli senza difficoltà; fulminea, li superava di due passi per poi caricarli di scatto quando loro, affaticati, accennavano a rallentare.
Paxe scorse Sorren appollaiata sulla palizzata; il candore dei suoi denti balenò in un sorriso, ma continuò la dimostrazione senza interrompere il passo. Infine si arrestò con un grido. – Yai! – Le Guardie si avvicinarono per ascoltare. Le sue mani si muovevano mentre parlava.
Come tutti gli altri indossava abiti da allenamento: la camicia di cotone e dei calzoni forniti di stringhe, una tenuta che rammentava a Sorren l’uniforme da allenamento indossata da Isak. Una volta gli aveva parlato di quella somiglianza nell’abbigliamento, e lui le aveva spiegato che un tempo gli antichi ceari usavano vestirsi in quel modo, cosicché le Guardie cittadine conservavano quella tradizione pur ignorandone l’origine.
– Esistono ancora dei veri ceari? – gli aveva chiesto.
Probabilmente un altro uomo al posto suo si sarebbe sentito oltraggiato dall’allusione al fatto che lui non fosse un vero ceari. Ma Isak non si adirava mai e, del resto, era stato lui stesso a definirsi in quel modo.
– Forse – le aveva risposto. – Da qualche parte, su al nord. La leggenda narra che un discendente della dinastia di Van di Vanima viva ancora tra le Colline Rosse.
A quelle parole Sorren era stata scossa da un fremito. Ricordava i racconti di sua madre a proposito della magica Valle di Vanima, ove nessuno si ammalava mai, né si pativano il freddo o la fame: la valle dell’eterna estate. – Esiste un posto simile? – aveva chiesto a Isak.
Lui le aveva rivolto il sorriso sardonico che gli era proprio. – La leggenda dice di sì.
– Ma tu non ci credi.
– No – aveva confermato scrollando la testa.
Sorren conosceva la storia del Clan Rosso. L’aveva appresa dai raccoglitori nei vigneti allorché, nelle calde serate, si riunivano intorno ai falò. Una volta le Piazze d’Armi erano luoghi pubblici, dove i bambini andavano a imparare l’arte del combattimento. Coloro che si dimostravano più forti, più sicuri di sé e più aggraziati nei movimenti, si dedicavano alla Danza. E quelli capaci di lottare e danzare a un tempo, venivano chiamati ceari.
I migliori costituivano piccoli gruppi uniti dall’amore, dal rispetto e dall’abilità. Ciascuno di questi gruppi assumeva il nome di ceara. Così riuniti, i ceari viaggiavano di villaggio in villaggio, di città in città, e ovunque danzavano, insegnavano l’arte delle armi e rapivano i cuori di coloro che li osservavano in tutta la terra di Arun, pervadendoli di perfetta armonia.
Ma, col passare del tempo, Kendra-sul-Delta s’andava affollando sempre più, e ciò contrariava il Consiglio cittadino; ecco allora che questo aveva bandito il porto di armi da taglio e l’insegnamento di esse all’interno delle porte della città. Il Consiglio delle Famiglie di Shanan aveva adottato poco dopo il medesimo provvedimento. Infine, anche il Consiglio di Tezera aveva approvato il Bando.
I ceari, sgomenti di fronte all’abbandono di una così antica tradizione, si erano lamentati presso il Tanjo. Il Consiglio dei Maghi si era riunito allora per deliberare e, alla fine, il suo capo, il L’hel, si era pronunciato.
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