“Le cose cambiano, aveva detto, e il cea si manifesta nella pace. Il divieto imposto alle armi da taglio renderà pacifiche le città. Perciò, che i soldati combattano e i ceari danzino. Non v’è più alcuna necessità che la gente delle città, a eccezione delle Guardie, impari a combattere o a usare le armi.”
Alcuni ceari, come Meredith di Shanan, avevano messo da parte i loro pugnali, abbandonato la Piazza d’Armi e, obbedienti al dettato dei Maghi, si erano dedicati a insegnare esclusivamente la Danza. Altri si erano uniti invece alla Guardia cittadina, e avevano preso a insegnare le arti della lancia, della mazza e della lotta corpo a corpo. Ciò era consentito solamente alle Guardie.
Tuttavia, la maggioranza dei ceari, increduli, offesi e avversi a cambiare, aveva abbandonato le città.
– Dove andarono? – aveva chiesto Sorren a Isak e successivamente a Paxe. Quell’antica storia l’affascinava e la incuriosiva.
– Andarono a ovest e a nord – le aveva risposto Isak, – alla ricerca, credo, della Valle di Vanima, dove il Clan Rosso aveva avuto origine.
– Andarono a ovest – era stata la risposta di Paxe.
– Sicché esiste ancora un Clan Rosso?
– Chiedilo a Isak Med – le aveva consigliato Paxe. – Lui potrebbe indossare la shariza se volesse.
E, a sua volta, Isak le aveva detto: – Chiedilo al Maestro della Piazza.
Ma non bisognava forzare Paxe a parlare quando non ne aveva voglia. Sorren non glielo chiese una seconda volta. Invece immaginò da sé la risposta: No. Il Clan Rosso non esisteva più. Quest’idea la rattristava. Però, in fondo era vero: la città era pacifica. Le pattuglie di Guardie mantenevano l’ordine. Forse erano rimasti pochi vecchi ceari da qualche parte nell’Arun. Ma sembrava molto improbabile che un giorno si decidessero a spingersi entro i confini delle città.
Sorren abbassò gli occhi sul terreno della Piazza d’Armi. La testa inclinata da una parte, le mani appoggiate sui fianchi, Paxe osservava gli allievi intenti ad allenarsi. Era alta, ampia di torace al pari delle sue Guardie: una figura grave e imponente. I suoi capelli, incredibilmente ricci, erano tagliati cortissimi.
Sorren si mosse leggermente cambiando posizione sul suo punto d’osservazione. Il Maestro della Piazza la guardò, sorrise, e accennò con la testa in direzione della sua abitazione, una villetta poco distante. Sorren contraccambiò il sorriso. Rivolte le gambe dall’altra parte della palizzata, balzò giù. La villetta, dove Paxe abitava con suo figlio Ricard, si trovava nei pressi del lato orientale della Piazza d’Armi.
La porta era aperta: Ricard era in casa.
Ufficialmente abitava lì, ma di fatto dormiva raramente in quella casa, preferendo le abitazioni e i covi dei suoi amici. Se ne stava accoccolato sulle stuoie inondato dalla luce solare. Aprì gli occhi non appena la figura di Sorren gli fece da schermo dalla luce che gli cadeva addosso. Si alzò lentamente. – Cosa ci fai qui? – le chiese.
Sorren aveva voglia di ridergli in faccia e di dirgli di non fare lo stupido, ma Ricard aveva soltanto quattordici anni e detestava che si ridesse di lui. Gli girò intorno. Là dove il corpo di Paxe era coperto di muscoli, quello di suo figlio era imbottito di grasso. Era perennemente imbronciato; se lei fosse stata una ragazzina altrettanto scontrosa tre anni prima, probabilmente Arré l’avrebbe rimandata nei vigneti in preda al disgusto.
Entrò in cucina. Il gatto grigio di Paxe era appisolato sul ripiano piastrellato del focolare. Dischiuse un occhio – aveva solo quello, perché l’altro gli era stato accecato durante un combattimento l’anno prima – e le miagolò un saluto meravigliato.
Sorren gli carezzò la soffice e folta pelliccia luccicante. La bestiola era in perfetta forma fisica, quanto la sua padrona. Con fievoli miagolii fece le fusa alle carezze della visitatrice. Poco distante, una pesca era adagiata su un vassoio abbellito da decorazioni floreali. Sorren la raccolse, e il profumo del frutto le fece venire l’acquolina in bocca. L’addentò, avvertendo sulla lingua la lanugine della buccia. Era perfetta, dolce e matura.
Intanto Ricard l’aveva seguita in cucina. – Quella non era destinata a te! – le disse con aria seccata ma non del tutto seria.
– Ne vuoi un po’? – lo invitò Sorren, porgendogli il frutto.
– No. – Il ragazzo si grattò il mento dal quale cominciavano a spuntare i primi accenni di barba. Aveva la pelle più chiara di quella di sua madre. – Ascolta, devo dirti una cosa.
– Di’ pure. – Sorren accarezzò il gatto e continuò a mangiare la pesca, pronta ad ascoltarlo. Ricard le raccontò una storia lunga e complicatissima che apparentemente riguardava un suo amico e una ragazza. Sorren si domandò se davvero quello sbarbatello fosse convinto che lei avrebbe creduto all’invenzione dell’amico.
Sul davanzale della finestra c’era una clessidra. Sorren la capovolse per osservare la sabbia versarsi lentamente da uno scomparto all’altro. Ricard si chinò su di lei. Avevano la stessa statura, il che significava che era alto quasi quanto Paxe. Sorren lo scrutò.
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