– Dovresti andare al Tanjo – le aveva detto questa quando Sorren le aveva parlato del suo potere.

– Non voglio – aveva protestato la ragazza, e Paxe ne aveva rispettato la volontà. Arré non avrebbe mai accettato la sua decisione, di questo Sorren era più che sicura; la sua padrona aveva una considerazione troppo alta del talento per riuscire a concepire l’idea che qualcuno potesse non desiderarlo.

– Forse un giorno potresti sentire il bisogno di andarci – aveva osservato Paxe. Sorren aveva annuito, ma in cuor suo ne dubitava. I Maghi vivevano nel Tanjo e parlavano soltanto tra loro. Per Sorren, abituata al movimentato andirivieni dei mercati, quel luogo appariva troppo angusto e rigoroso, e la vita che offriva troppo limitata.

Oltretutto era improbabile che l’avrebbero ammessa al Tanjo; in fondo non vedeva che un unico luogo: le montagne, solo e sempre le montagne. Le vedeva in primavera, quando il fiume azzurro saltellava lungo le pendici dei colli, agile come una lepre selvatica; le apparivano in estate, e in autunno, quando la pioggia trasformava le valli in acquitrini; le vedeva in inverno. Era invariabilmente l’identico scenario: i campi, il fiume e il castello con la sua unica, alta torre, luccicante di ghiaccio in inverno. Quel posto esisteva per davvero, Sorren ne era certa. A volte si avvicinava alla torre all’imbrunire, fino a scorgere una luce che si irradiava attraverso i vetri ambrati delle finestre.

Aveva descritto tutto ciò a Paxe, ma il Maestro della Piazza non conosceva un luogo simile.

Un giorno, pensava Sorren, quando sarò padrona del mio tempo, scoprirò dove si trova, e ci andrò.

Ma sua madre l’aveva vincolata alla Famiglia Med per i tradizionali otto anni, e il giorno della sua libertà sarebbe spuntato solo dopo un altro lungo anno.

– Stamattina è venuto Isak – disse Sorren.

– Ah, sì? – Anche Paxe recuperò i suoi indumenti. – E cosa voleva?

– Vuole danzare per il Consiglio, quando si riunirà in Assemblea.

Paxe si infilò la camicia dalla testa. – Arré ha acconsentito, naturalmente. – Sorren annuì. – Mi domando cos’abbia in mente.

Il suo tono era pensieroso. – Perché dovrebbe avere qualcosa in mente? – replicò Sorren, accarezzando la coscia di Paxe solcata da una lunga cicatrice. E, per l’ennesima volta, si chiese come se la fosse procurata. Riteneva che si trattasse della ferita di una lancia.

– Perché la odia – spiegò Paxe. – Ricordo quando Shana, la madre di Arré, era viva, e insegnava a sua figlia a governare il Distretto. Allora Isak odiava anche lei.

Dalla Piazza d’Armi si udì la voce di Dis, il Vice-Comandante della Guardia Diurna, gridare ordini alle sentinelle. Paxe si raddrizzò. – Devo andare, chelito. Ci vediamo più tardi. – Accostò le labbra ai capelli di Sorren e ve le tenne un istante; quindi si alzò, e i suoi denti scintillarono nel volto bruno e austero.

Scese di sotto. Sorren rimase seduta in silenzio, ad ascoltare i suoi passi. La camera da letto di Paxe somigliava alla sua amante: era pulita e bella. Non vi erano stuoie a rivestire il pavimento, e le pareti di legno rosso erano prive d’arazzi. Sorren cominciò a intrecciarsi i capelli, ma poi rammentò di non avere nulla per legarli. Li lasciò dunque sciolti, e scese anche lei dabbasso.

Uscì dal villino e si incamminò lungo il recinto della Piazza d’Armi, diretta alla Casa dei Med. Poco distante trovò Ricard ad attenderla. Il ragazzo le si accostò goffamente e Sorren sorrise tra sé. Aspettò che le dicesse qualcosa, ma Ricard taceva, limitandosi ad aggrottare le sopracciglia. La cosa finì col seccarla.

– Volevi finire di raccontarmi quella storia? – sbottò.

Ricard la guardò con risentimento.

– No.

All’interno del piazzale, Paxe stava dando istruzioni; la sua voce echeggiava tra le assi della staccionata. – Cosa le hai detto?

– Detto a chi?

– A mia madre.

Sorren si grattò la punta del naso. – Di te, niente.

L’espressione di Ricard si fece, se possibile, più cupa del solito. Tuttavia riuscì a biascicare un “Grazie”.

Sorren si chiese come mai restasse nella città se la cosa lo disturbava tanto. – Ricard – gli disse, – hai mai desiderato di andar via da qui? Di viaggiare?

La fissò sbigottito come se d’un tratto si fosse messa a parlare in Asech. – Cosa cambierebbe? – replicò.

Sorren non seppe interpretare il significato di quella risposta. Ricard si allontanò; aveva sentito Arré e Paxe discutere animatamente a proposito della sua persona. Arré reputava giusto che Paxe lo mandasse a nord, nei vigneti. “Myra lo farà lavorare” aveva detto. Sorren era d’accordo. Ma Paxe non ne voleva sapere.

Forse, pensò Sorren, Ricard sarebbe stato meno scontroso se avesse avuto dei fratelli o delle sorelle. Prima di lui Paxe aveva avuto altri due figli, ma erano morti entrambi.