Sorren entrò nella villa passando dalla porta della cucina. Il cuoco se n’era andato. Gli apprendisti se ne stavano accoccolati tutti assieme con aria da cospiratori. Avvertì allora l’odore, dolce e inequivocabile, dell’Erba dell’Estasi. Si accostò al gruppo, e i fumatori le passarono la pipa; aspirò lentamente l’aspro fumo narcotico. Porse quindi la pipa a Lalith. Di mano in mano l’oggetto compì il giro dei fumatori per tornare nuovamente a lei. L’agitò con delicatezza per smuovere le scaglie e aspirare un’ultima volta.
Salì di sopra silenziosamente. La sua stanza era ubicata nella zona posteriore della casa, vicina abbastanza a quella di Arré, affinché potesse udire il campanello che la padrona suonava per chiamarla. Per raggiungerla, doveva passare dinanzi alla stanza di Arré e, se la porta di questa era chiusa, ciò significava che la padrona non intendeva essere disturbata. Sorren sperò di non trovarla aperta.
L’Erba dell’Estasi la rendeva ipercosciente del suo corpo. Scivolò piano sul tappeto decorato del corridoio del piano superiore. La porta di Arré era aperta, ma solo di uno spiraglio.
Giunta nella sua stanza, Sorren trasse i tamburi dal cesto ove li teneva riposti. Erano di legno, e la parte superiore era fatta di pelle di daino. Aveva cominciato a suonare quand’era nei vigneti, percuotendo i tronchi cavi che i raccoglitori procuravano durante la Festa del Raccolto. Infilò i tamburi tra le ginocchia. Sulla pelle di quello di sinistra vi era un punto particolarmente consumato. Se avesse colto Isak in un momento favorevole, sarebbe forse riuscita a farsene comprare uno nuovo, il che avrebbe fatto piacere ad Arré.
Picchiettò leggermente sulle pelli dei tamburi, Pah-pah-pahdum-pah. Si chiese in quale Danza Isak si sarebbe esibito dinanzi ai Consiglieri. Certamente un pezzo lento e intrigante, ricco di sottili mutamenti nel ritmo; non le Danze vertiginose che offriva alle folle durante le feste popolari.
Pah-pah-pah-dum-pah. L’Erba dell’Estasi le impediva di concentrarsi. Le dita le pizzicavano. Le piaceva quell’erba, e le piaceva fumarla specialmente in compagnia di Paxe (sebbene questa lo facesse assai di rado), e dopo fare l’amore.
Pah-dum-pah-pah. I muscoli le si muovevano sotto la pelle. Sentiva la fragile struttura del bracciale da schiava che portava alto sul braccio sinistro. Era d’ottone, decorato da triangoli smaltati di colore azzurro e scarlatto. Doverlo indossare non la disturbava; la vita che conduceva in qualità di schiava era assai meno dura di quella alla quale era stata destinata, la vita di una raccoglitrice, di un’emigrante.
In quella stanza erano poche le cose che le appartenevano effettivamente. I tamburi erano suoi: glieli aveva regalati Isak in un momento di generosità. Per usanza, anche gli abiti che indossava erano di sua proprietà. Così pure le cose custodite nella cassa di legno di cedro: la spazzola, il pettine, lo specchio di bronzo, la catenina d’oro e i sandali.
Le Carte erano sue. Le teneva riposte in una cassettina di legno infilata sotto il guanciale. Erano molto vecchie – non sapeva di preciso quanto – e i disegni che recavano, servivano a leggere nel futuro della gente, a predirne la sorte. Erano appartenute a sua madre. Ce ne erano ventidue, tutte numerate e diverse l’una dall’altra; a seconda dell’immagine che raffiguravano, Sorren aveva dato loro dei nomi. La ragazza aveva imparato a leggere i numeri quand’era ai vigneti, e le teneva racchiuse nella cassetta, ordinate secondo la sequenza numerica e avvolte in una pezzuola di seta rossa. Una sola Carta non recava numero: il Danzatore.
Le sue dita picchiettavano sulle pelli dei tamburi. Predire la sorte era contrario ai principi del cea, come dicevano al Tanjo. Ma quel divieto non turbava Sorren: di fatto non sapeva usare quelle Carte, né rammentava se sua madre ne fosse stata capace. Come le sarebbe piaciuto ricordare tutte le storie che le raccontava sua madre! Vi avrebbe certo trovato la spiegazione che chiariva la provenienza delle Carte, nonché il modo in cui si utilizzavano. Forse vi avrebbe persino trovato una spiegazione alle sue visioni.
Una volta aveva pensato di mostrare le Carte ad Arré ma, se lo avesse fatto, avrebbe potuto trovarsi costretta a rivelarle il suo talento, cosa che Arré non avrebbe esitato a riferire ai Maghi. E allora l’avrebbero obbligata a lasciare la Casa dei Med per andare a vivere nel Tanjo a servire il cea, isolata da tutti i suoi amici, e specialmente da Paxe. E poi, avrebbe dovuto rinunziare definitivamente alle sue montagne.
Tutto ciò sarebbe stato terribile. Le dita intanto danzavano sui tamburi. Pah-pah-pah, pah-pah-PAH. Avrebbe odiato quella vita; sarebbe certo fuggita.
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