Nella cerchia ristretta dei 12 romanzi in gara per il Premio Strega, quest'anno c'è Nina dei lupi, una storia che potremmo definire un horror per le atmosfere, un racconto fantastico per le allegorie e gli archetipi a cui attinge a piene mani, un romanzo post apocalittico se vogliamo darne una definizione piuttosto vaga.
La storia si riassume in fretta e cattura con la stessa velocità: una catastrofe immane, le cui cause rimangono vaghe, ma i cui effetti vengono mano a mano chiariti nel succedersi dei capitoli, porta una piccola comunità montana a isolarsi completamente. Il mondo è crollato, è sconvolto, la civiltà si è sgretolata e quel che ne è rimasto è furioso, violento e pericoloso. Bande di predoni e di assassini percorrono le strade e per il piccolo paese di Peidimulo l'unica via di salvezza sembra essere quella dell'isolamento.
Così, mese dopo mese, la comunità invisibile ritorna alle usanze più antiche, riscopre la fatica della vita senza alcun tipo di tecnologia e di contatto con l'esterno e si adatta, sopravvivendo e silenziosamente prosperando.
Nina è solo una bambina, scampata all'orrore dei massacri e delle febbri, e diventa la testimone di un nuovo disastro, perché un giorno, proprio il giorno in cui il nonno la porta a conoscere l'uomo dei lupi, che vive isolato nei boschi oltre il fiume, il mondo esterno irrompe a Piedimulo e la tregua si rompe.
La trama è semplice, lienare e ben raccontata, l'atmosfera è quella dello scontro tra chi resiste, umano e vivo sotto un cielo sconvolto da colori bizzarri, macchie nerarstre che disegnano arabeschi assurdi nel cielo, e chi si abbandona alla violenza incontrollata, insensata, vorace e priva di qualsiasi progetto se non la distruzione e l'egoismo.
Il romanzo è claustrofobico, chiuso tra la montagna e la catastrofe, dove personaggi appena tratteggiati, ma molto vitali, trasportano il lettore nel mondo di un orrore quotidiano, con l'incubo passato di una catastrofe senza nome della quale l'unica cosa chiara è che in fondo l'uomo è stato pienamente colpevole, e l'incubo presente della violenza e dell'orrore che viene dai propri simili.
Ci sono fortissimi richiami alle tradizioni pagane e rurali della montagna, come se l'azzerarsi della civiltà avesse portato alla luce lo strato più antico di chi si trova a viverci, ed è ben dosato il mistero, un sovrannaturale appena oltre la linea del credibile, appena un passo oltre il perturbante, che rende tutta la storia inquietante e facile da amare.
E' un bel romanzo, insomma, tra l'orrore e il fantastico, scritto con appena troppo pochi dettagli sulle cause e sulle dinamiche da non consentirgli di essere davvero un fantasy o un racconto di fantascienza, e con un linguaggio dal tono alto, che però di tanto in tanto suona un po' pretezioso, come a voler tenere a distanza chi legge.
Voltata l'ultima pagina, resta l'mpressione di un viaggio affascinante e tremendo, di una prospettiva di quello che potrebbe essere il nostro futuro, di un umanità estremamente realistica nel suo diventare violenta senza uno scopo, autodistruttiva e stupida.
Non se ne va però, purtroppo, anche la sensazione che l'autore voglia dimostrare che sa scrivere e che sa scrivere in quel registro alto che lo distingue da altri romanzi, come stesse in piedi sulla montagna scura, guardando il resto della narrativa di genere che si muove, aldilà del fiume. E' l'unica nota stonata, non del tutto gradevole, di un libro che comunque vale la pena di leggere.
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