Lei viene spesso definito autore di fantascienza ma se dovesse raccontare le sue tematiche a un lettore che ancora non le conosce, cosa direbbe?
Sono uno scrittore di cose reali viste con un occhio particolare, che prova molta meraviglia per quegli elementi impensabili in passato e oggi dati per scontati. Siamo abituati a pensare che il fantastico sia irreale, invece entra nella vita di tutti i giorni: non ce ne rendiamo conto e le chiamiamo coincidenze. Un esempio: per la serie horror The Walking Dead è stata fatta una campagna pubblicitaria con attori truccati da zombie che passeggiavano in mezzo alla gente. Nessuno ci faceva caso, lo trovavano normale: il fantastico esiste attorno a noi ma non sappiamo vederlo.
Il fantastico è una cosa per indagare e magari criticare più che per evadere?
Molte volte si parla del fantastico come sistema escapista, finalizzato a una fuga, ma non è così. Prendiamo per esempio il tema dei mondi alternativi: nel momento in cui immagino un mondo "altro" devo fare un’analisi di quello vero, altrimenti come faccio a demolirlo e ricostruirlo? I miei romanzi sono spesso ambientati in mondi apparentemente normali ma divergenti dal nostro (es, in Mare di Bering non ci sono i cellulari), per portare il lettore un po’ fuori dalla sua realtà e farlo entrare di più nella Storia.
Questo genere potrebbe essere lo slispstream. Oggi come oggi si tende a classificare i generi e normalmente gli scrittori vivono questa tendenza come una gabbia alla creatività. Cosa ne pensa delle classificazioni? A lei piacciono?
No, non mi piacciono. Vorrei che un domani parlassero di romanzi “alla Avoledo”. Nelle mie storie posso servirmi del giallo o di altro. Ultimamente ho giocato col genere catastrofico e di enigmi alla Dan Brown, ma in modo più sofisticato e con molta cura nella lingua: il libro è Un buon posto per morire, titolo tratto da un videogioco (Brothers in Arms), che racconta un mondo particolare, da leggere con occhio curioso per cogliere le cose strane. Mi piace mettere un po’ di fantastico nella vita normale.
Una specie di “bolla” del fantastico è la Fantasy, da sempre considerata in Italia genere d’evasione, per adolescenti o adulti immaturi: secondo lei, la fantasy ha qualcosa in più da dire?
A me piace la Fantasy quando crea mondi con spessore e inventiva, e non la trovo sostanzialmente astratta: spesso tocca tematiche religiose, parareligiose, ecologiste, legate alla realtà. Con la fantasy si creano mondi in cui la magia prende il posto della tecnologia, un' idea con un suo senso: se è vero che noi usiamo una parte minima delle nostre facoltà mentali, potrebbe esistere un mondo alternativo con regole diverse.
E’ probabile che la maggior parte delle persone attorno a noi abbia una percezione tutto sommato non scientifica di ciò che ci circonda. Mi sono sempre chiesto: l’uomo del medioevo pensava che la terra fosse piatta e viveva in un mondo che per noi è fantasy, ma per lui era reale. Tutto sommato, anche la realtà più recente è piena di connotazioni fantastiche, basta pensare ad alcuni racconti che ascoltavo da bambino, dove Gesù Cristo aveva camminato “veramente” con San Pietro per le strade del Friuli a fare miracoli.
Quindi il confine fra realtà, non-realtà o più realtà parallele non è poi così netto? Una visione molto dickiana.
Ho avuto dei momenti dickiani. Adoro i libri che trattano la percezione del mondo degli aborigeni, per i quali il tempo della realtà e del sogno non sono divisi e cantano vie ormai scomparse da migliaia di anni: vivono ancora in un mondo in cui il fantastico è parte integrante, dove il sogno è più reale della vita.
Leggendo la sinossi del suo libro per il Progetto Italia, ho pensato al Cantico per Leibowitz di Miller, un libro molto pessimista: lei è più ottimista nei confronti del futuro?
Sono un pessimista che “ci prova”, secondo la definizione di un mio amico. Se dovessi vedere il futuro sarei spaventato, ma è anche vero che non si può andare avanti così per sempre. Si cade in basso ma poi si risale e prima arriva la fine di una certa fase, meglio è.
Forse noi ci stiamo rovinando perché crediamo nel mito americano del “più felicità per tutti”, ma non si può prescindere dal fatto che dovremo arrivare a un tipo di società più controllata, con regole diverse e meno sprechi. Io sono moderatamente ottimista: ci sono delle forze sane che lavorano.
Attualmente diversi autori, italiani e non, scrivono postapocalittico. E’ la solita paura ricorrente della fine del mondo, oppure le menti creative “percepiscono” certe situazioni prima degli altri?
Credo che il motivo sia questo: una persona che scrive è anche una persona che legge molto per documentarsi. In questo modo ci si rende conto di vivere in un ecosistema molto fragile, una società ad alto rischio di estinzione dove basta un evento - per esempio quello che è successo in Giappone - per mandare tutto in crisi.
Se basta un bug per rendere inservibile un cellulare, cosa può succedere con programmi che gestiscono la metropolitana di Torino o una centrale nucleare?
Per i romanzi, la notizia buona è che più sono catastrofici più hanno momenti di vitalità; c’è il sapore di alcuni gesti, lo scoprire come certe cose non siano scontate: l’acqua nei rubinetti, l’energia elettrica e così via. Noi ora viviamo in un mondo meraviglioso ma non ce lo godiamo come si dovrebbe.
La sua adesione al progetto Metro di Dmitry Glukhovsky con il romanzo "Le radici del Cielo" nasce da questo desiderio di mostrare che non tutto ciò che abbiamo è dovuto per sempre?
Si, la società deve accontentarsi di meno, ma quello che possiede dà gioia: lo stesso concetto c’è nel romanzo di Mc Carthy, La strada, con il bambino che beve la prima e ultima coca cola della sua vita, anche se qui la visione generale è traumatizzante.
Il suo libro “le radici del cielo”: Roma e Venezia, perché?
Dmtri Glukowski mi ha detto “i tuoi lettori non sono mai stati all’estero, devi dare riferimenti chiari per visualizzare le scene”, quindi ho usato immagini conosciute.
Roma mi serviva per le Catacombe e per la presenza del Vaticano: se c’è una forza capace di sopravvivere per la capillarità di contatti e per l’esperienza che possiede, è il Papato. Venezia è una città affascinante, l’ho immaginata senza più acqua, ho raccontato come può essere l’attraversare canyon di fango secco, vedere le palafitte dei palazzi crollati che formano una specie di foresta di alberi pietrificati, le gondole affondate, gli anelli preziosi – buttati in mare durante secoli di cerimonie – che affiorano scavando.
Tutti elementi dal richiamo evidente.
Nei romanzi, le distopie spesso hanno origine da cataclismi universali, da piaghe apocalittiche: è verosimile che una ambientazione di questo tipo possa nascere dalla degenerazione progressiva e involutiva di una società, di uno stato o di un sistema?
Degli spunti ci sono già, sia nella realtà che nei libri. Una superstrada che verrà costruita in mezzo alle risaie e distruggerà, a causa delle scorie, tutto l’ecosistema, penalizzando la qualità dei raccolti: chi mangerebbe oggi il sushi di Fukushima, che ti nutre e fa anche luce? In letteratura, c’è un romanzo di Gary Shteyngart – Storia d’amore vera super triste – ambientata in un’America del prossimo futuro: economia in crisi e assurde forme di controllo, in cui tutto funziona per inefficenza. Esilarante, ma di un realismo inquietante.
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