Tutto a colori. Uno strillo in copertina che, per i fumetti di casa Bonelli, è sempre stato un segnale di festa. La bandiera gialla che sventola dove si balla, la grande boa che annuncia l'ingresso in altre acque. Insomma, Dylan Dog ha raggiunto l’invidiabile quota delle 300 uscite, e – come dice il suo creatore Tiziano Sclavi nell’introduzione all’albo – non sono molte le serie che possono vantare questo traguardo. Festeggiare è lecito, e dei colori meno piatti del solito, opera dello Studio Rudoni, rendono un po’ meno scontato questo anniversario. Peccato, però, che oltre al colore, stavolta più curato, non ci sia molto altro per cui esultare. Anzi, quasi nulla. Non mancano gli zombi, la realtà confusa con i sogni, vecchie conoscenze, vecchi trucchi... Insomma, il lettore è stato invitato da Dylan Dog, il giovane indagatore dell’incubo di Craven Road, ma si accorge presto di essere ormai alla festa di compleanno del nonno. Un nonno che si saluta sempre volentieri, ma che – ahimé – appare sempre più rugoso e fiacco, nonostante il vestito bello della festa. Un vegliardo piuttosto tranquillo, tranne che per quel vizio impenitente... Quello di allungare le dita ossute verso il nostro collo, per tentare di morderci, di nutrirsi di noi...
Venticinque anni di vita, per un fumetto, sono un banco di prova non indifferente. Ancor più se la serie ha scelto di navigare nei mari dell’horror, da sempre genere dal fiato corto, la cui esibizione regolare fa calare la soglia dell’interesse con la solerzia spietata di una ghigliottina. Quando apparve nelle edicole, nell’ormai lontano 1986, Dylan Dog non era certo un prodotto perfetto, eppure era fornito di una serie di armi mediatiche di forte impatto. Non tanto la scelta dell’orrore e del soprannaturale come campo d’azione, quanto la forme del narrare. L’impudente citazionismo, spesso ai limiti della clonazione, soprattutto cinematografica, che poteva far storcere il naso a qualche purista, ma assumeva il ruolo di filtro riciclatore di un mezzo di comunicazione attraverso un altro, spesso con risultati bizzarri se non azzeccati. L’orrore visivo, che dopo la prima, memorabile sequenza di episodi avrebbe cominciato a diradare la sua presenza, arricchiva l’albo di elementi trasgressivi non inediti, ma sicuramente insoliti per un fumetto popolare italiano. Così gli elementi surreali, i riferimenti sociali, e tutto il resto, avevano fatto di Dylan Dog un fumetto dalla spiccata personalità, e di conseguenza un ottimo successo commerciale. Nel tempo, determinati meccanismi si sono rivelati vulnerabili a un ossidamento precoce. Abbiamo così visto stemperarsi l’effetto splatter, e ampliarsi (forse anche troppo) il lato surreale e trasognato, fino all’inevitabile sfilacciamento.
Per questo, Ritratto di famiglia, numero celebrativo dei 25 anni di uscite e del numero 300, non sorprende, regalando esattamente quanto ci si può aspettare da Dylan oggi, dopo 25 lunghi anni. Ritratto di famiglia è veramente quel che dice il titolo. L’ennesima rimpatriata di personaggi, atmosfere e sequenze che sono stati amati in passato. Qui riuniti, messi in bella posa e fotografati a regola d’arte. Ma non c’è altro. La trovata di mescolare gli elementi di più episodi storici (a partire dal primo numero, L’alba dei morti viventi) non è più nuova dell’espediente del colore. Anzi, è appannata da un velo di già visto che inizia a cagliare in noia. Il rapporto edipico con Morgana, madre e amante, fantasma femminile universale che gira a vuoto in un interminabile gioco al rimpiattino, non ha veramente più niente da dire. Gli strappi narrativi giustificati con repentini risvegli a realtà differenti sono quanto di più prevedibile possa essere servito in tavola. Una torta che si è gustata nelle feste precedenti, ma che ormai, anno dopo anno, ha acquistato un gusto stucchevole.
La sensazione è quella di sedere in un teatrino dove vengono fatte sfilare una dopo l’altra maschere note, magari riverniciate per apparire più ammiccanti. Ma la melodia che fa danzare le marionette non cambia ritmo e si arena in un monotono ritornello. Una non storia, un girotondo tra amici che si tengono per mano cantando la loro vecchia canzone. Può essere piacevole, nostalgico, ma non emoziona più, e lascia un senso di spreco. E’ probabile che i lettori più maturi provino comunque una certa simpatia per questo episodio celebrativo, per le sue finte sorprese e i camei delle vecchie glorie. Tra i più giovani, e meno ferrati nella mitologia surreale dell’indagatore dell’incubo, magari si potrà contare qualche brivido in più. Se non altro, la mano di Angelo Stano non ha perso magia. La sua matita è da sempre la più raffinata e idonea a illustrare le avventure di Dylan, così come il lavoro di sceneggiatura di Pasquale Ruju è diligente e misurato, come si richiede in casa Bonelli. Purtroppo non c’è altro, e inizia a farsi tangibile il convincimento che il viaggio sia ormai terminato. Che la bara sia definitivamente vuota, che i morti, pur camminando, non mordano più... se non per succhiare via il costo di qualche euro, stancamente. Come un vecchio nonno che ci regala sempre la stessa caramella, avvolta in una variopinta carta crocchiante, ma ormai opaca e sempre più insapore.
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