Antico Ordine
di Simona B. Lenic
Si spense la luce.
Non avere paura.
L’acqua finì.
Non avere paura.
Strani animali - incroci di bestie, sempre più lontani dalla natura - apparvero piano piano lungo le strade. Cominciammo a vivere segregati in casa. Attingendo prima alle nostre riserve di cibo, accumulate con previdenza dai nonni, e poi mangiando solo quello che la terra poteva darci, e a volte erano vermi, ed eravamo fortunati perché noi un pezzo di terra – e i suoi vermi - ce l’avevamo. Gli altri rubavano, saccheggiavano, sfondavano le vetrine dei negozi finché lì c’era ancora qualcosa. Poi sfondavano le porte delle case. E sfondavano i crani della gente, se si metteva nel mezzo.
Più del vivere alla luce delle candele, più del lavarsi nelle pozzanghere, più della mancanza di un bagno, del gas o delle macchine, più di tutto era la fame che spingeva alla follia, alla lotta, all’orrore.
Ma non avere paura. La voce di mio nonno era un sussurro e aveva la potenza di un urlo.
Non avere paura, Surya. Mio padre mi teneva in braccio come fossi una bambola di pezza, leggera e senza occhi. E invece io vedevo. E se non fosse stato per le sue braccia, se non fosse stato per la sua voce, mi sarei chiusa nell’armadio e lì dentro sarei impazzita, come tanti bambini della mia età. O sarei scappata fuori e nessuno più mi avrebbe trovata, preda degli uomini o delle bestie. Scomparsa, come Lola, Melina, Mattias, come tanti ragazzini del quartiere che giocavano con me, e poi non hanno giocato più.
Ma io avevo mio padre. Avevo sei anni, i capelli lunghi fino alla vita, un vestito estivo e le gambe nude, calzetti di lana nei piedi e lo scialle della nonna d’inverno. Avevamo il fuoco del camino. E anche quando la legna finì non avevamo paura.
Sentivamo gli spari nelle case vicine. Giocano alla guerra, Surya, mi sorrideva mio padre. E invece si ammazzavano. Senza più soldi, senza più cibo, senza la forza di rispondere alla violenza e agli assalti, le persone si uccidevano nelle loro case. Noi invece stavamo stretti stretti. E il nonno raccontava della sua generazione, la prima generazione a non aver vissuto una guerra. E adesso questo, diceva la nonna. Ma poi cantava una canzone e mi sembrava di entrare in un mondo spensierato e divertente. Il babbo scuoteva la testa, perché la nonna era davvero stonata e non avere paura, mi ripeteva d’improvviso, e scoppiavamo tutti a ridere. Accendevamo le candele, ci barricavamo lontano dalla porta, come topi in una tana troppo scoperta, e dormivamo. Il nonno e il babbo facevano dei turni. Ogni notte c’era chi provava a entrare, e una notte qualcuno grattò contro la porta come un gatto dagli artigli di lama. Piangeva mia nonna. Piangevo io. E mio padre pronto a fare da scudo. E il nonno pronto con una spranga di ferro. Non si vedeva niente, si sentiva solo il rumore, e la puzza del sudore che scende acido quando si ha paura. Era l’alba che quelli ancora grattavano. Era l’alba quando se ne andarono con una bestemmia. La barricata del nonno funzionava o forse la gente ormai non aveva più abbastanza forze per essere violenta.
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