Scene di lotta di classe all'obitorio

di Marco Scaldini

A tutti è capitato di perdersi in un ospedale.

Le segnalazioni all’ingresso sono precise e puntuali, la freccina vi indica che radiologia è a destra e voi la seguite diligentemente per due corridoi e tre svolte, finché non arrivate a un trivio privo di segnaletica.

La logica vi direbbe di proseguire dritto, però davanti a voi il corridoio si restringe notevolmente, mentre la svolta a sinistra sembra costituire il proseguimento naturale del percorso. Escludendo la destra, dove ci sono scale che salgono, rimane un fifty fifty. Fino a ora avete incrociato un sacco di persone con camice e tesserino plastificato, ma in questo momento il corridoio è deserto e sembra non esserci nessuno a cui chiedere, neppure un altro visitatore sperso come voi. Decidete di proseguire a sinistra fino a che non incontrerete nuova segnaletica; se non compare radiologia tornerete indietro fino a quel punto per poi proseguire dritto.

Un corridoio, due corridoi, tre corridoi. Sperate proprio di aver imboccato la direzione giusta, perché tornare indietro a questo punto vuol dire rifare un sacco di strada. E invece no. Allo snodo successivo trovate almeno quindici cartelli indicatori, ma benché li rileggiate due volte per sicurezza, nessuno segnala radiologia. Cazzo.

A ritroso.

Un corridoio, due corridoi... un momento. Qui c’è una deviazione, con alcuni cartelli; nessuno indica radiologia, però prima non l’avevate notata. Possibile? Evidentemente sì, però la cosa vi lascia perplessi e per la prima volta vi coglie una inspiegabile voglia di uscire, di tornare all’auto e andarvene. A passi un po’ più lenti raggiungete il trivio di prima e imboccate la seconda scelta, cioè il proseguimento dritto. Ma chi vi assicura che già in precedenza non abbiate ignorato una deviazione, come vi è successo poco fa? Questo spiegherebbe tutto. Prendete quindi nota mentalmente: se anche questo corridoio non dovesse condurvi a niente, rifarete il percorso fino all’entrata, con più attenzione.

La testa vi gira leggermente.

Con andatura quasi circospetta percorrete un primo corridoio. Incontrate alcune persone, ma resistete all’impulso di chiedere informazioni; ormai vi sembra quasi una sfida personale. E poi per chiedere c’è sempre tempo.

Così pensate. Che quelle persone possano essere le ultime che vedrete non avete ragione di poterlo immaginare.

Dopo una curva a destra vi ritrovate d’improvviso all’aperto, in un vasto cortile interno. Il vostro corridoio diventa un sentiero coperto di ghiaia, che quasi subito si biforca, conducendo ad altri punti d’ingresso al cortile; di cartelli neanche l’ombra. Siete sul punto di bestemmiare, quando vi accorgete di non essere soli. In un angolo, a una ventina di metri da voi, è seduta una donna.

Adesso basta. Chiederete. A lei e poi a chiunque altro incontriate.

Con passo deciso vi dirigete verso di lei.

Con passo deciso mi diressi verso di lei.

Perché qui la mia storia si fa diversa, credo, da quella di tutti gli altri che, dopo essersi smarriti nei corridoi di un ospedale, sono poi riemersi alla normalità. Io no. E non si creda di cogliermi in contraddizione, perché poche righe sopra ho affermato che le persone incontrate nel corridoio sarebbero state le ultime da me viste. E la donna nel parco, allora?

Seguitemi nei miei passi sempre più incerti sulla ghiaia e lo saprete.

* * *

Via via che mi avvicinavo, sentivo più chiaramente i singhiozzi della donna. La vedevo di profilo: era seduta su una panchina di pietra, piegata in avanti con il volto fra le mani. Il tailleur nero le risaliva fino a mezza coscia, forse anche più su, lasciando scoperta una gamba tornita e muscolosa; non indossava calze e il piede nudo era infilato in un sandalo nero con tacco a spillo, quasi del tutto esposto e con le unghie laccate di rosso accesissimo. I capelli platinati, lunghi e lisci, mi nascondevano anche quella parte di volto non coperta dalle mani.

Ero a metà strada quando capii perché piangesse. Era seduta fuori della cappella mortuaria. Sarebbe stato logico a quel punto tornare sui propri passi. Chiedere informazioni a una persona affranta per la morte di un proprio caro era fuori discussione. Perché allora continuai a camminare? Forse perché quelle gambe scoperte costituivano indubbiamente un’attrattiva, forse perché quei singhiozzi più mi avvicinavo e più mi suonavano strani, forse perché ormai non avevo più scelta. D’improvviso sentii tutta la stanchezza di quel camminare a vuoto per i corridoi dell’ospedale e, passando davanti alla donna in lacrime, andai a sedermi al suo fianco sulla panchina di pietra.

Era così fredda che drizzai di scatto la schiena, percorsa da un brivido improvviso.