«Che avevano addosso?»
«Uno dei ragazzi aveva un coltellino, ma piccolissimo. Non ci si potrebbe uccidere nemmeno un topo da latte... un giocattolo. E tutti avevano una cicca. Nient’altro.» Alzò le spalle. «La droga non l’avevano con sé, l’abbiamo trovata accanto al muretto, però...» un’altra alzata di spalle «c’erano solo loro nei paraggi.»
Corwi fece cenno di avvicinarsi a uno dei nostri colleghi e aprì la borsa che lui portava. Piccoli fasci d’erba impiastrati di resina. In gergo è chiamato feld: un robusto ibrido di Catha edulis rafforzato da tabacco, caffeina e altra roba ancora più tosta, oltre a fili di fibra di vetro o analoghi per scorticare le gengive e favorire la penetrazione nel sangue. Il suo nome è un bisticcio trilinguistico: si dice khat nel luogo in cui cresce, e l’animale chiamato ‘cat’ in inglese si dice feld nella nostra lingua.
L‘annusai: era roba piuttosto scadente. Mi diressi verso i quattro adolescenti che tremavano nelle loro giacchette rigonfie.
«Come butta, poliziotto?» disse un ragazzo in un’approssimativa cadenza besź dell’inglese da hip-hop. Guardò su e incrociò i miei occhi, ma era pallido. Né lui né i suoi tre compagni a vevano un’aria sana. Da dove si trovavano non a vrebbero potuto vedere la ragazza morta, ma nemmeno guardavano in quella direzione.
Dovevano aver capito che avevamo trovato il feld e che sapevamo che era roba loro. Non avrebbero potuto dire niente, solo darsela a gambe.
«Sono l’ispettore Borlú» disse. «Squadra Crimini Estremi.»
Non dissi Sono Tyador. Un’età difficile per fare domande, questa... Troppo vecchio per nomi di battesimo, eufemismi e giochi di parole, ma non abbastanza per essere un avversario diretto in un interrogatorio, dove almeno le regole sono chiare. «Come ti chiami?» Il ragazzo esitò, dubbioso se cavarsela con una scappatoia in slang che poteva essersi preparato, ma non lo fece.
«Vilyem Barichi.»
«L’hai trovata tu?» Lui annuì, e i suoi amici annuirono dopo di lui. «Raccontami.»
«Si viene qui perché... p’ché...» Vilyem attese, ma io non feci cenno alla droga. Lui abbassò lo sguardo. «E poi sgamiamo qualcosa sotto quel materasso e lo rovesciamo.»
«C’erano dei...» aggiunse, e i suoi amici alzarono gli occhi quando Vilyem esitò, ovviamente superstizioso.
«Dei lupi?» dissi. I ragazzi si guardarono fra loro.
«Già, capo, un piccolo branco rognoso che stava annasando lì intorno e...»
«Così abbiamo pensato che...»
«Quanto tempo dopo essere arrivati qui?» chiesi.Vilyem alzò le spalle. «Non lo so. Un paio d’orette?»
«C’era qualcun altro in giro?»
«Avevo lumato dei tipi laggiù un po’ prima.»
«Spacciatori?» Un’alzata di spalle.
«E c’è un furgone che sale sull’erba, passa da qui e si sbologna
dopo un po’. Non abbiamo parlato con nessuno.»
«Quando è arrivato il furgone?»
«Non lo so.»
«Era ancora buio.» Fu una delle ragazze a parlare.
«D’accordo. Vilyem, voi ragazzi, vi offriremo qualcosa da mangiare e da bere, se volete.» Feci un cenno a una delle guardie.
«Abbiamo sentito i genitori?» chiesi.
«Stanno arrivando, capo, a parte quelli di lei...» Indicò una delle ragazze. «Non siamo riusciti a rintracciarli.»
«Allora continuate a provare. Adesso portateli al centro.»
I quattro adolescenti si scambiarono un’occhiata. «È una stronzata, capo» disse il ragazzo che non era Vilyem, nemmeno troppo convinto. Sapeva che secondo una certa politica doveva opporsi ai miei ordini, ma in fondo voleva andare con il mio sottoposto. Tè nero e pane e riempire scartoffie, la noia e le luci al neon, comunque tutt’altra cosa che rovesciare quel grosso materasso intriso di umidità, nel prato, nel buio.
Stepen Shukman e il suo assistente Hamd Hamzinic erano arrivati. Controllai l’orologio. Shukman mi ignorò. Quando si chinò sul corpo respirava affannosamente. Certificò la morte e fece delle osservazioni che Hamzinic mise per iscritto.
«Da quanto?» chiesi
«Un dodici ore» rispose Shukman. Fece pressione su uno degli arti della ragazza. Lei rotolò su sé stessa. Col rigor mortis, e in equilibrio instabile com’era sul terreno, probabilmente aveva assunto la posizione sdraiata che aveva al momento della morte, quando era adagiata su un’altra superficie. «Non è stata uccisa qui.» Avevo sentito dire più di una volta che sapeva far bene il suo lavoro, ma non avevo mai riscontrato che fosse più che competente.
«Fatto?» disse a una dei tecnici addetti a riprendere la scena. Quella scattò un altro paio di foto da due differenti angolazioni e annuì. Shukman rovesciò la donna con l’aiuto di Hamzinic. Lei sembrò opporre resistenza con la sua immobilità rattrappita. Rigirata era assurda, come qualcuno che giocasse a fare l’insetto morto, braccia e gambe piegate, dondolante sulla spina dorsale.
Ci guardava da sotto una frangetta svolazzante. Il volto era atteggiato a una sofferenza sbalordita, quasi fosse perennemente
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