I suoi custodi corsero via, unendosi ad una schiera di guerrieri dell'Andiron: i più feroci e temibili di tutto il regno di Hasgalen, e facilmente riconoscibili, perché portavano le loro asce dipinte di rosso sulle spalle, e i capelli scuri raccolti in lunghe e sottili trecce.
Dinesh li lasciò passare e si ritrovò all'improvviso solo in un tratto del pontile inaspettatamente vuoto, invaso e nascosto dal fumo nero degli incendi che il vento piegava verso il mare. Persino il pulviscolo di neve si faceva nero, in quel fumo. Il sole era scomparso. L’uomo sentì nelle vene il dolore per quel buio e per l’eco delle grida e del rumore delle armi che venivano dalla città.
Sgusciò via per stradine senza nome che lo allontanavano dalla grande strada centrale di pietra rosa. Si inerpicò fino al bosco sullo sperone d'occidente, e da lì raggiunse la scogliera e si calò sulle rocce ai piedi delle mura, e poi le risalì fino alla porta dell'ovest. La vide, da lontano, tra dense colonne di fumo: la porta era un cumulo di macerie coperto di cadaveri. Urla e strepiti arrivavano trascinati dal vento.
Dinesh si accoccolò sul terreno gelato, le mani strette a pugno.
— Grande Madre, perdono! Ciò che ho creato a fin di bene è stato volto al male, e ora tutto questo sangue è nelle mie mani… e non ho nemmeno la forza per prendere su di me tutto questo dolore… non ne ho la capacità!
Restò lì, gli occhi lucidi, la bocca secca, il respiro che sembrava volerlo abbandonare. Poi sentì l'eco di un urlo, un'ovazione di gioia e di trionfo scaturita da tante gole nello stesso momento.
La Porta d'Oro era stata aperta.
Helvdan salì quasi correndo l'ultima rampa di scale del palazzo del Re dell’Isola, quella che portava agli appartamenti privati.
In un altro momento si sarebbe fermato ad ammirare la bellezza dell’edificio, le ampie sale che si affacciavano su loggiati protetti da vetri colorati e le terrazze di pietra bianca che salivano fino al punto più alto della città, al tempio della Dea Madre. Lì, proprio dove finiva l'ampia strada centrale che divideva in due la Città d'Oro e iniziavano le terrazze, c'era un albero immenso. Il suo tronco era tanto ampio che dieci uomini con le braccia aperte non avrebbero potuto circondarlo; i suoi rami erano così alti che sembravano arrivare al cielo, e altri rami erano invece ripiegati, e conficcati nella roccia viva dell'alto basamento che lo ospitava.
Era brullo, ma se nella giusta stagione era ancora in grado di coprirsi di foglie, allora davvero ci doveva essere la magia degli Immortali nell'Isola.
Helvdan si sentì quasi male, a quel pensiero.
Xarshal gli venne incontro di corsa, la spada sguainata e rossa di sangue. Si lasciava alle spalle, nelle stanze violate, un silenzio assoluto, e il silenzio gravava ormai sull'intero palazzo come una coperta fredda.
— Mio Re, il figlio di Lisbarth è qui! — esclamò, cedendogli il passo.
— Ci sono altri bambini?
— Ne abbiamo trovati molti nel palazzo di fronte.
— Sei certo di aver ordinato ai soldati di essere attenti nel prenderli? Non devono fare loro alcun male, nemmeno per accidente; devono proteggerli dal freddo lungo la strada fino alle navi, e consegnarli alle donne. Sono finalmente arrivate le navi?
— Non temere, Helvdan. Non temere. Le navi delle donne hanno attraccato. In poco tempo tutti i bambini saranno al caldo e al sicuro nelle loro braccia.
— Quanti, Xarshal? Quanti saranno alla fine?
— È presto per dirlo. Forse ottomila, forse dieci.
— E gli altri? Quelli più grandi?
— Ben più di diecimila. Li sistemeremo nelle stive, ma cercheremo di tenerli in vita comunque.
Helvdan annuì debolmente. Era arrivato sulla soglia della stanza, e quasi con riluttanza ne scostò la tenda che la proteggeva. Ora stava per compiersi il suo miracolo.
Suo figlio.
La stanza era stata devastata, come per l'improvviso passaggio di un folle, che tuttavia aveva attuato la sua distruzione con discernimento. Due donne con la gola tagliata erano rannicchiate ai piedi del letto; due ancelle, che avevano tentato di difendere la loro signora, che invece giaceva di traverso sulle coperte piene di sangue, il lungo abito lacerato dalla gola alle cosce devastate, e uno squarcio tra i seni candidi.
Helvdan vi lasciò lo sguardo soltanto un attimo. — Non ho ordinato violenza sulle donne — osservò aspro. — La Dea Madre non perdona l'affronto alle sue figlie… — pensò, e poi si rese conto che nulla di quanto era compiuto in quel giorno poteva essere perdonato.
— Nemmeno l'hai proibita! Conosci gli uomini dell'Andiron — replicò Xarshal. — Il viaggio per mare è stato lungo…
— Bada allora che non tocchino i bambini! Non li devono contaminare. Prometti loro che potranno sfogarsi sugli schiavi, ma solo quando saremo tornati in mare.
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