Cercò di asciugarsi e cambiarsi in fretta, non solo perché era in ritardo. Stare in quella stanza minuscola, buia e muffita le procurava sempre la sgradevole sensazione di trovarsi in un mondo parallelo dimenticato, che poteva ricevere solo echi lontane della vita reale. Se poi gli unici segnali di attività umana nei dintorni erano riconducibili a onde sonore ad alto voltaggio emesse dall’ugola di Leroy Bell, il suo capo, allora il turno di lavoro si prospettava lungo e costellato di insidie.
Un anno prima, Laura si era presentata nell’ufficio di Leroy Bell, un omino calvo e irascibile, sicura che non sarebbe stata scelta come cameriera nel suo prestigioso ristorante. Ne era uscita stringendo un foglio di carta firmato con un ghirigoro svolazzante, nonostante tra le cinquantaquattro candidate presentatesi al suo malizioso cospetto fosse l’unica a non avere un briciolo di esperienza sulle spalle. In un primo momento aveva pensato che Leroy Bell si fosse addolcito quando lei gli aveva detto di essere una ragazza volenterosa e sveglia, che stava cercando di mettere da parte un po’ di soldi per contribuire alle spese della sua futura istruzione universitaria. I dubbi sul cinismo del suo nuovo capo erano stati fugati la sera successiva, quando Susan Bones, una ragazza madre che lavorava alFlounders da due anni, le aveva fatto notare (non che Laura non se ne fosse accorta) le occhiate in tralice che i clienti facoltosi riservavano alle cameriere.
“Leroy vuole solo ragazze carine e con un bel fisico” le aveva sussurrato con saggezza indifferente mentre le mostrava come servire il gelato nelle coppette. “Non importa se non sai tenere i piatti sull’avambraccio, quello lo impari qui. L’importante è avere due belle tette o un culo sodo, meglio se tutti e due insieme. E se sei giovane, tanto di guadagnato. I pezzi grossi che vengono qua dentro non pagano per le schifezze che gli propina Leroy. Pagano per vedere noi.”
A Laura capitava ancora di pensare, di tanto in tanto, che aveva ottenuto quel lavoro a discapito di ragazze che ne avevano più bisogno di lei. Aveva biasimato Leroy Bell e neanche i soldi che lui le dava, non molti in fin dei conti, erano riusciti a farle cambiare idea su di lui e sulla sua dignità di uomo e datore di lavoro. Adesso, a pochi giorni dall’inizio dell’Università, Laura non vedeva l’ora di sciacquare via dalla sua memoria l’immagine della sua faccia tonda e scaltra, e la puzza di frittura dai suoi capelli.
Quella sera, a causa della forte umidità, erano crespi e ribelli. Laura se li frizionò e li pettinò con gesti rapidi, ai due lati della scriminatura. Srotolò l’organza bianca della divisa sulle maniche e si abbottonò il colletto fino a sentire la sua presa salda sulla gola. Nell’oscurità quasi totale dello spogliatoio, Laura si specchiò per pochi istanti.
Le sue labbra si allungarono in un piccolo sorriso speranzoso.
Laura uscì dallo spogliatoio e si diresse alle cucine. Quando passò davanti la cassa, Yves, il socio di Leroy, le porse la cornetta del telefono come se le stesse passando un grosso verme viscido.
“È… per me?”
“Stupidina” cinguettò con sufficienza Yves, e si allontanò volteggiando sulle punte.
Laura sospirò. Poi si ricompose. “Sì?”
Sentì schiarirsi una voce maschile. In un primo istante le sembrò quella di suo nonno, ma furono sufficienti poche parole per capire che dall’altra parte della cornetta non c’era né un suo parente, né una persona che conosceva.
“Buonasera Laura, il mio nome è Morvus Wolfe. Ho bisogno di parlare con lei.”
La voce suonava profonda e suadente, screziata da una vena sottile di autorevolezza.
Laura si accigliò. “Morvus Wolfe ha detto? Non credo di conoscerla.”
“Oh, poco male. Le chiedo solo di ascoltarmi, Laura.”
Laura si guardò intorno. Leroy non era nelle vicinanze e Yves, per quanto stizzoso, era meno famigerato di lui. “Sì, se non ci vuole molto” tagliò corto Laura.
“Sarò brevissimo, allora. L’ho chiamata per chiederle se può raggiungermi.”
Una ciocca di capelli le scivolò sul viso, ma Laura non se la sistemò dietro l’orecchio, com’era solita fare.
“Cosa? Raggiungerla? Credo che lei si stia sbagliando.”
“Io non credo, signorina Becket” ribadì la voce. “Lei capirà che per telefono non è possibile spiegare molte cose, e ciò che devo dirle richiede necessariamente la sua presenza.”
Laura sospirò piano, come per invocare pazienza. “Senta, credo che lei abbia sbagliato persona. Io non la conosco e non so cosa…”
“Nessuno sbaglio, Laura. Lei abita a Londra nel quartiere di Camden, al civico 11 di Camel Road, giusto? E lavora da circa un anno in un noto ristorante gestito da un uomo caritatevole chiamato Leroy Bell, dico bene?”
Laura si morse il labbro. “Sì... ma io non so chi sia lei e cosa stia cercando, perciò se si tratta di uno scherzo…”
“All’uscita del ristorante c’è una macchina che l’aspetta. Termini il suo lavoro, poi si diriga alla vettura e salga. È di fondamentale importanza che…”
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