Un dito le puntellò la scapola e Laura sobbalzò. Si voltò di scatto: Leroy stava ticchettando l’indice affusolato contro il grosso quadrante del Rolex che portava al polso. Senza pensare se quella fosse una scelta giusta o meno, Laura abbassò la cornetta.
“Chi era?” bisbigliò malizioso Leroy.
“Cosa? Oh, ecco…”
“Allora?”
“Ehm… era la mia bisnonna. Mi ha detto che non ha più tovaglie, così mi ha chiesto se tu fossi disposto a privarti di una delle tue camicie.”
Aveva esagerato. Quelle parole potevano costarle il licenziamento immediato, ma a Laura non importava di perdere le competenze degli ultimi giorni. Ricambiare Leroy con la stessa carta con cui lui l’aveva soggiogata per tutto l’anno, quella del cinismo e del poco rispetto, era diventata per Laura una tentazione troppo forte.
Con un gesto stizzito, Leroy staccò il filo del telefono dalla presa e lo sbatté a terra. Laura si allontanò senza obiettare.
La cucina era in subbuglio a causa del gran numero di clienti, quella sera. Sui fuochi ardevano enormi padelle sporche di grasso bruciato, da cui zampillavano schizzi di olio e sbuffavano pennacchi di fumo come piccoli geyser. Ai lati del soffitto, i tubi aspiranti rombavano come macchine infernali.
Susan le passò accanto volteggiando con un numero imprecisato di piatti contenenti frittura di pesce su entrambe le braccia. “Preparati al peggio” la incoraggiò e sparì. Laura sospirò e si rimboccò le maniche.
All’una, dopo quella che era stata una serata campale, aveva terminato il suo turno. Si diresse indolenzita allo spogliatoio, dove si cambiò con gesti automatici e stanchi. Raccolse la sua borsa, l’ombrello delle emergenze e raggiunse il salone oramai deserto, fatta eccezione per gli ultimi clienti della notte. Salutò nessuno in particolare, né si aspettò che qualcuno le rispondesse. Aprì la porta.
Garrick Street sembrava un fiume in piena. Laura indugiò sulla soglia: alle sue spalle, le luci delFlounders brillavano tremule da dietro le finestre. Poteva tornare dentro e aspettare che spiovesse, pensò. O poteva aprire l’ombrello, affrontare la pioggia battente e correre verso la Northern line. La terza alternativa era quella che a Laura causava più prurito: guardarsi intorno con maggiore convinzione di quanto non stesse facendo, per verificare se ci fosse davvero una macchina che la stava aspettando.
Mentre serviva ai tavoli, Laura aveva continuato a ripetersi che quella telefonata era stata uno scherzo o un errore. Nonostante avesse impiegato tutta la serata per avvalorarle, entrambe quelle ipotesi le sembravano adesso deboli e scricchiolanti. Nessuno dei suoi amici le aveva mai fatto scherzi di quel tipo; nessuno di loro l’aveva mai chiamata sul numero del ristorante, neanche i suoi genitori. Anche l’idea che si trattasse di un omonimia era inverosimile; l’uomo con cui aveva parlato al telefono sapeva troppe cose esatte su di lei: dove abitava, che lavoro faceva e da quanto tempo. Conosceva persino il civico della sua abitazione.
Morvus Wolfe.
Quel nome non le diceva niente. Non aveva mai conosciuto una persona che si chiamasse così, quantomeno non se ne ricordava. Quell’uomo doveva però conoscere Laura, tutt’al più doveva aver parlato con qualcuno che gli aveva fornito quelle informazioni su di lei.
Laura ripensò alla sua voce. La sua eco l’aveva tormentata per tutta la serata e anche in quel momento, più forti dello scroscio della pioggia, continuava a sentire quelle parole svolazzargli nelle orecchie come insetti fastidiosi, difficili da scacciare.
Non voleva tornare dentro. Poteva verificare che non ci fosse qualcuno ad aspettarla nelle macchine parcheggiate ai lati della strada; o poteva scomparire sotto la città e tornare a galla quando fosse stata troppo lontana dal Flounders e dal rintocco cupo della voce di Morvus Wolfe.
Laura cominciò a risalire Garrick Street controvento.
Giunta all’incrocio con Long Acre, il cuore le scoppiò nel petto. Poco distante dal punto in cui si trovava, parcheggiata sotto un albero, vide una macchina. Era ferma e aveva le luci abbaglianti accese. C’era qualcuno seduto al posto di guida ma in controluce Laura riusciva a distinguere solo i contorni della sua figura, simile a una piccola macchia che frusciava sotto una veste nera. Gli abbaglianti si spensero e si accesero, ammiccandole. Due volte, poi un’altra ancora.
Laura trasalì e il piombo che quella visione le aveva riversato nelle gambe si disperse attraverso le suole delle scarpe. Si allontanò a grandi passi nella direzione opposta, quella sbagliata. In lontananza crepitò il tuono. Poco distante, un motore prese a rombare.
Laura cominciò a correre ma proprio a causa della repentinità con cui quell’ordine era giunto ai muscoli delle sue gambe, scivolò sull’asfalto viscido. Urtò il ginocchio e il fianco contro la recinzione di un’aiuola e l’ombrello le volò via, divorato dalla furia del vento. Cercò di alzarsi, ma una fiammata terribile alla gamba le tolse il respiro. Impotente, osservò la sagoma avvolta nella veste nera balzare fuori dalla macchina che l’aveva seguita e avvicinarsi a lei, bloccandole il passaggio.
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