Laura aprì la bocca per gridare ma quando la misteriosa figura si abbassò il cappuccio che gli oscurava il volto, l’urlo le si incagliò in gola.

Blackchapel, Yorkshire settentrionale, ore 23:53

Andrew McLeod ripose nella custodia la sua chitarra, una Fender Mustang con controlli Jaguar che aveva acquistato con i soldi guadagnati facendo i lavori più disparati. Dopo tre ore passate nel vecchio garage che utilizzavano per provare, l’unico posto della città in cui potevano suonare senza dover dare fondo alle loro tasche vuote, gli Aleka’s band erano stanchi e sudati.

Colin Butcher, un ragazzone con due basette alla Elvis Presley, lasciò cadere a terra le bacchette della batteria e si deterse la fronte con un grosso asciugamano. Marshall e Sean Pillow, il bassista e l’altro chitarrista del gruppo, erano abbacchiati e taciturni. Andrew McLeod si passò le mani nella matassa scompigliata di capelli e sospirò di frustrazione.

 “Ragazzi sono tre settimane che proviamo questi maledetti pezzi e il risultato è sempre lo stesso: schifo assoluto.”

Andrew fissò Sean, in attesa di una risposta che non arrivò. Fu Marshall a parlare per lui. La sua voce era titubante.

“Non è solo colpa nostra, Andrew. Questi pezzi sono impegnativi, e poi non provavamo da una settimana praticamente. E come se non bastasse…”

“Come se non bastasse… cosa?” lo incalzò Andrew, fulminandolo con lo sguardo.

“Questo posto, maledizione, ecco cosa. Qui dentro manca l’aria anche quando fuori è sottozero, per non parlare di questi maledetti scaffali che ci impediscono anche di muoverci. Non è così facile.”

Andrew studiò Marshall con attenzione, poi volse lo sguardo a Sean, a Colin, per tornare a concentrarsi su Marshall. Trascorsero alcuni secondi di significativo silenzio, interrotto solo dal rombo delle macchine che, di tanto in tanto, sferragliavano inferocite su Glensville Road.

“Andiamo ragazzi, questa del garage è solo una scusa” si lamentò Andrew. “Lo so che qui dentro non vorrebbe starci nessuno, ma è il solo posto che abbiamo per provare. Lo sapete meglio di me che il problema non è questo.”

Colin, che da qualche secondo era intento a fissare i suoi scarponi, alzò lo sguardo. “E quale sarebbe, allora?”

Andrew ripose la chitarra nella custodia e chiuse la zip. “Il problema è che non ci crediamo abbastanza. Stiamo suonando senza convinzione, come se fossimo rassegnati a restare in questo garage per tutta la vita.”

“Lo sai benissimo che non possiamo essere ciò che non siamo.” Era stato Sean a parlare, con voce piatta e sfiduciata. Andrew cercò gli occhi di Sean e in quelli puntò i suoi, due fiamme verdi alimentate a fuoco vivo dall’irruenza e dalla sfrontatezza dell’adolescenza.

“Non lo sai neanche tu cosa…” cominciò Andrew.

“Guardati intorno!” Sean fece un gesto sprezzante, che comprendeva loro quattro e lo spazio angusto che li circondava. “Siamo quattro ragazzini che suonano le loro stupide canzoni in un posto squallido. Più di così non possiamo fare.”

Andrew lanciò un’ultima occhiata a Sean, prima di incamminarsi in direzione della porta arrugginita che sbucava sul giardino spoglio della casa di suo zio, Lennon McLeod. Si fermò sull’uscio, dove restò per qualche secondo in silenzio.

Parlò senza voltarsi. “Per una volta nella mia vita, una volta sola, voglio pensare che sarò io e non un altro a superare la muraglia. Se è vero che il peggior fallimento è non tentare, io non ho nessuna intenzione di fallire nell’unica cosa che so fare.”

Andrew uscì dal garage e si incamminò lungo Glensville Road, incurante della pioggia e del freddo.

Erano passati tredici mesi da quando lui e Sean avevano formato gli Aleka’s band. Tredici mesi in cui i progetti entusiastici che avevano cimentato all’inizio la loro unione erano andati dissipandosi lentamente davanti ai loro occhi, come aria da una fuga minuscola. Non avevano un posto dignitoso in cui provare, ma questo non era il maggiore dei loro problemi. Molto più deludente era, secondo Andrew, che non riuscissero a creare una band diversa da tutte le altre che riempivano le palestre delle scuole della città e i palchi squallidi dei rave suburbani. Una band che avesse un’identità riconoscibile, che riuscisse a realizzare qualcosa di più di semplici cover dei pezzi degli AC/DC e dei Wolfmother. In fin dei conti, agli occhi dei loro coetanei apparivano solo come dei ragazzi con idee e storie personali intricate come i loro capelli, che sguazzavano sui marciapiedi puzzolenti di piscio e birra dei pub, senza qualcosa di interessante da dire. 

Quando arrivò a casa Andrew si chiuse l’uscio alle spalle e tirò un respiro di sollievo. Gocciolava acqua come uno spaventapasseri zuppo.

“Dove sei stato?”

Adam McLeod, un uomo sulla cinquantina calvo e trasandato, posò la cornetta del telefono e contrasse la mascella.