La capitale aveva ormai invaso il suo capanno illuminatod’argento, allontanando il sonno con i ricordi di un tumulto rissosoe vivace che non si fermava mai a nessuna ora del giornoo della notte. Venditori e acquirenti che si sgolavano nei mercati;mendicanti, ciarlatani e chiromanti; prefiche in lutto, pagateper seguire un funerale con i capelli sciolti; frastuono di cavalli e carri che attraversavano il buio e il giorno, e nerboruti portantini che gridavano ai passanti di fare largo, spingendoli con i loro frustini di bambù ai lati della strada. La Guardia dell’Uccello Dorato, anch’essa con il frustino di ordinanza, aveva una postazione a ogni incrocio della città e il compito di sgomberare le strade al calar del sole.
C’erano piccoli negozi in ogni quartiere, aperti tutta la notte. I raccoglitori notturni di escrementi passavano tra le case, preceduti dal loro lamentoso avvertimento. Grandi tronchi attraversavano,
galleggiando e cozzando tra loro, le mura esterne di Xinan fino alla grande vasca del mercato est, in cui venivano venduti e comprati non appena si alzava il sole. Le esecuzioni e le flagellazioni del mattino si tenevano nelle piazze dei due mercati, e dopo ogni decapitazione c’erano sempre
molti saltimbanchi che approfittavano della folla rimasta. C’erano campane che rintoccavano le ore del giorno e della notte, e il lungo rimbombo dei tamburi che segnava la chiusura e l’apertura dei cancelli delle mura esterne e dei quartieri, al tramonto e all’alba. Primavere in fiore nei parchi, frutta d’estate, foglie d’autunno e quella polvere gialla che aleggiava ovunque, soffiata fin lì dalla steppa. La polvere del mondo. Giada e oro. Xinan.
Ne aveva visto i colori e ne aveva sentito gli odori, percependoli come fossero reali, come un caos che tornava alla mente, una cacofonia dell’animo. Poi aveva respinto quel mondo, nella luce pallida della luna, ed era tornato ad ascoltare gli spiriti, quei lamenti con cui aveva dovuto imparare a convivere per non impazzire.
Aveva posato lo sguardo sul suo scrittoio basso, avvolto nel chiaro di luna, sulla pietra da inchiostro e sulla carta, sulla stuoia di lana sistemata lì davanti. Le sue spade riposavano appoggiate alla parete, accanto allo scrittoio. Il profumo dei pini si insinuava attraverso le finestre aperte, portato da una brezza notturna. Le cicale frinivano il loro duetto con i morti.
Aveva deciso di recarsi a Kuala Nor d’impulso, per onorare suo padre, ma era rimasto lì più per sé stesso che per lui, lavorando ogni giorno per offrire il sollievo che poteva a quegli uomini rimasti senza sepoltura. Il lavoro di un uomo. Non di un immortale. Non di un santo.
Erano passati così due anni, le stagioni avevano girato, come anche le stelle. Non sapeva come si sarebbe sentito, tornando alla concitazione e al tumulto della capitale. Non lo sapeva davvero.
Ma sapeva bene chi gli fosse mancato. L’aveva vista con gli occhi della mente, era quasi riuscito a udirne la voce, troppo vivida da permettere al sonno di tornare, e aveva ricordato l’ultima volta che era stato con lei.
«E se qualcuno dovesse portarmi via da qui, quando sarai lontano? Se qualcuno mi dovesse dire... mi dovesse chiedere di diventare la sua cortigiana personale, o perfino una sua concubina?»
Ovviamente, Tai sapeva chi era quel qualcuno.
Le aveva preso la mano, impreziosita da molti anelli e da lunghe unghie smaltate d’oro, e se l’era messa sul petto, per farle sentire il suo cuore.
Lei aveva riso, con una punta di amarezza nella voce. «No! Fai sempre così, Tai. Il tuo cuore non cambia mai il suo battito. Non mi dice mai niente.»
Nel Distretto Nord in cui si trovavano – sdraiati in una stanza al primo piano della casa di piacere del Padiglione del Chiaro di Luna – lei veniva chiamata Pioggia di Primavera. Tai non conosceva il suo vero nome. Chiederlo sarebbe stato inappropriato, considerato un gesto di maleducato.
Scegliendo le parole con cautela, per via della delicatezza di quell’argomento, Tai aveva cercato di spiegare: «Due anni sono lunghi, Pioggia. Lo so. Possono accadere molte cose nella vita di uomo, o di una donna. Il fatto è che...»
Lei lo aveva interrotto coprendogli la bocca con una mano, bruscamente. Non era sempre delicata con lui. «No. Stammi a sentire, Tai. Se ricominci a parlare della Via, o della bilanciata saggezza del lungo corso della vita, ti pianterò un coltello tra le gambe. Pensavo che volessi saperlo, prima di continuare.»
Tai ricordava la sua voce di seta, la devastante dolcezza con cui era capace di dirgli certe cose. Lui le aveva baciato il palmo, premendolo contro la sua bocca, e poi aveva detto piano, mentre lei ritraeva un poco la mano: «Devi fare quello che credi sia meglio per te, per la tua vita. Non voglio che tu sia una di quelle donne che passano le loro notti ad aspettare alla finestra, in cima a una scala di giada. Lascia che sia qualcun altro a vivere quei poemi. La mia intenzione è quella di recarmi alla casa dei miei genitori, osservare i riti in memoria di mio padre, e poi fare ritorno qui. Questo è quello che posso dirti.»
Non le aveva mentito. Quelle erano davvero le sue intenzioni.
Ma le cose, poi, erano andate diversamente. Quale uomo oserebbe mai credere che tutto ciò che pianifica sia destinato ad accadere con assoluta certezza? Nemmeno l’imperatore in persona, con il mandato del cielo nelle sue mani, potrebbe sperare tanto.
Non sapeva cosa ne fosse stato di lei, se qualcuno l’avesse davvero portata fuori dal quartiere delle cortigiane e l’avesse rivendicata come sua, dietro le mura di pietra di un palazzo della nobiltà dove quasi certamente avrebbe trovato una vita migliore. E, dato che non aveva scritto a nessuno, nessuna lettera era giunta per lui a ovest del passo dei Cancelli di Ferro.
Non doveva per forza essere un estremo o l’altro, aveva concluso tra sé: non doveva essere una scelta tra Xinan o questa solitudine assoluta. Il grande racconto di saggezza della Via insegnava
l’equilibrio. Le due metà dell’anima di un uomo, della sua vita interiore. Così come si bilanciavano distici di una strofa; elementi in un dipinto – fiume, dirupo, airone, barche –; pennellate sottili e spesse in una calligrafia; pietre, alberi e acqua in un giardino; così andavano alternate le trame dei propri giorni.
Sarebbe potuto tornare alla sua casa lungo il fiume, per esempio, invece che alla capitale, una volta partito da Kuala Nor. Avrebbe potuto stabilirsi lì e scrivere, sposare qualcuno che sua madre e la sua seconda madre scegliessero per lui, coltivare il giardino e il frutteto – fiori in primavera, frutta d’estate –, ricevere visite e poi ricambiarle, invecchiare e incanutire nella tranquilla serenità della sua casa, ma lontano dalla solitudine. Avrebbe potuto osservare le foglie di paulonia mentre
cadevano a terra, e i pesci rossi nuotare pigri nello stagno, ricordando suo padre che faceva lo stesso. Avrebbe perfino potuto, un giorno, essere reputato saggio. L’idea l’aveva fatto sorridere, nel chiaro di luna.
Avrebbe potuto viaggiare verso est lungo il fiume Wai, o navigare il Grande Fiume attraverso le sue gole fino al mare, per poi tornare indietro: i barcaioli avrebbero lottato contro la corrente con le loro lunghe pertiche e, una volta tornati nuovamente tra le gole selvagge, avrebbero trascinato le barche verso ovest con delle robuste corde lungo gli scivolosi passaggi che avevano ricavato nella roccia viva.
Sarebbe anche potuto andare più a sud, dove l’impero diventava diverso e misterioso: terre in cui il riso veniva coltivato nell’acqua, dove c’erano elefanti, gibboni e mandrilli, foreste di palissandri, alberi di canfora, e perle nei mari per quanti fossero disposti a tuffarsi per recuperarle. Terre in cui le tigri dagli occhi gialli uccidevano gli uomini nelle giungle oscure.
E poi, la sua era una stirpe illustre. Il nome di suo padre offriva un efficace viatico grazie al quale Tai avrebbe potuto farsi accogliere tra i ranghi di prefetti ed esattori delle tasse, e perfino di governatori militari, in tutto il Kitai. Adire il vero, in tal senso il nome del primo fratello sarebbe ormai stato forse perfino più utile, anche se la faccenda presentava qualche complessità.
Erano tutte possibilità. Avrebbe potuto viaggiare e pensare, visitare templi e padiglioni, pagode inerpicate su speroni rocciosi ammantati di nebbia e santuari di montagna, e scrivere mentre viaggiava. Poteva fare proprio come aveva fatto il grande poeta, il maestro i cui versi lo avevano accompagnato al risveglio, e come forse stava ancora facendo, chissà dove. Anche se, con un pizzico di onestà intellettuale (e di ironia), Tai aveva dovuto considerare l’idea che Sima Zian sembrava essersi dedicato, durante tutti i suoi anni in giro per le strade e per i fiumi, tra le montagne, nei templi e nei boschi di bambù, a bere più che a scrivere.
Ma contava anche quello, no? Il buon vino, la compagnia di amici fino a tarda notte. La musica. Non erano certo cose da disdegnare, o da evitare.
3 commenti
Aggiungi un commentoIo ho già letto il romanzo, ormai credo che lo sappiano tutti da quante volte l''ho scritto. E così sono in grado di valutare questo capitolo un po' meglio rispetto agli altri, perché so cosa significano queste pagine nell'economia generale del romanzo. Ho fatto qualche commento in proposito sul mio blog:
Under Heaven comprende 573 pagine, diventate 592 in traduzione, il che mi fa sospettare che i caratteri di stampa saranno abbastanza piccoli, come già avvenuto con Sanderson e Rothfuss. Il romanzo è costituito da quattro parti, ventisette capitoli in tutto, più un epilogo. Visto che quello che pubblicheremo è il primo capitolo e che Kay non è tipo da partire in media res in queste pagine avviene ben poco. Kay ci fornisce alcuni retroscena della vita di Tai, ma sono troppo pochi per poterlo capire davvero. Sono solo alcune informazioni di base per inquadrare la storia, in attesa di farci scoprire tutto a tempo debito. Non è che ci siano segreti tenuti in modo artificiale, è solo che se una cosa non è importante in quel momento lo scrittore non ce la dice. Non so quanto libri ho letto in cui un personaggio voleva sapere qualcosa ma non ci riusciva perché altri lo tenevano deliberatamente all’oscuro “per il suo bene”. No, se ci sono pericoli è meglio sapere che non sapere, almeno li si affronta con una certa preparazione, e se le domande espresse chiaramente non ricevono una risposta da chi potrebbe e dovrebbe darla spesso lo scrittore non sta mantenendo la suspance. Sta solo prendendo in giro il lettore.
La conclusione di questo capitolo è esemplare del metodo di Kay: Tai e Bytsan sanno di cosa stanno parlando, si scambiano anche informazioni importanti, solo che noi, pur assistendo al dialogo, non riusciamo a capire cosa stiano combinando. E quando questo ci viene rivelato l’effetto è molto forte. A volte la rivelazione arriva sotto forma di azione, altre volte sono riflessioni a posteriori del personaggio. Certo è un modo molto particolare, e notevolmente efficace, per gestire le informazioni. Ci lascia lì, con il fiato in sospeso, e intanto ci affascina e incuriosisce con altre cose. Poi, quando siamo sufficientemente distratti, arriva la mazzata.
Perciò questo capitolo è interlocutorio, vediamo il dono ma non sappiamo cosa questo comporti. The world could bring you poison in a jewelled cup, or surprising gifts. Sometimes you didn’t know which of them it was.
In più non sappiamo come valutare quello che ci viene detto. Dall’accenno alla favorita dell’imperatore, di cui non ci viene detto neppure il nome, non sappiamo cose pensare di lei. Forse solo che è una donna bellissima che per questo solo fatto è diventata potente, ma che non merita il potere che detiene. Ma è davvero così? Le donne di Kay sono in gamba, e usano tutte le armi che hanno a disposizione.
Quali e quante armi hanno a disposizione le donne e gli uomini di questo romanzo? A volte più di quanto non sembra a prima vista.
Dopo questo piccolo antipasto, parte il conto alla rovescia per il suo arrivo
L'ho comprato sabato e l'ho iniziato ieri!
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