Ma quel che gli uomini facevano sotto il loro sguardo maestoso poteva cambiare più rapidamente di quanto si potesse mai sperare di capire.

Lo disse: «Non capisco.»

Bytsan non rispose. Tai guardò la lettera tra le sue mani e lesse nuovamente il nome vergato in calce.

Una persona in particolare, con l’autorizzazione della corte.

Una persona. La principessa di Giada Bianca Cheng-wan, diciassettesima figlia del riverito ed eccellentissimo imperatore Taizu. Mandata a ovest vent’anni prima, verso una terra straniera, dal suo scintillante mondo di ricchezze. Mandata lì con il suo pipa e il suo flauto, con una manciata di attendenti e servitori, scortata da una guardia d’onore Taguran, per diventare la prima sposa imperiale mai concessa da Kitai a Tagur. Per essere una delle spose di Sangrama il Leone, nella sua alta, sacra città di Rygyal.

Era parte del trattato che aveva fatto seguito all’ultima campagna militare di Kuala Nor. La sua giovane persona (aveva quattordici anni, allora) era un emblema di quanto selvaggi – e inconcludenti – fossero stati i combattimenti, e di quanto importante fosse stato porvi un termine. Un esile, grazioso pegno di pace duratura tra due imperi. Come se davvero sarebbe stata duratura, come se davvero lo fosse mai stata, come se il corpo e la vita di una ragazza avessero potuto assicurare una cosa simile.

Nell’autunno di quell’anno, in Kitai piovvero poemi come petali di fiori, compatendone la sorte con parallelismi e rime: sposata a un orizzonte lontano, caduta dal cielo, portata via dal mondo civilizzato (dei versi e delle rime) oltre barriere montane cinte di nevi, tra i barbari sul loro aspro promontorio.

Era stata la moda letteraria di quel periodo, un tema facile, finché un poeta non venne arrestato e fustigato con il bastone pesante nella piazza antistante il palazzo – ne morì quasi – per aver scritto un verso che suggeriva come l’accordo non fosse soltanto un fatto doloroso, ma anche un torto nei confronti della principessa.

Una cosa del genere non poteva essere detta.

Un conto era l’afflizione – educato, colto rimpianto per una giovane vita che cambiava, lasciando dietro di sé la gloria del mondo –, ma non bisognava mai proporre un punto di vista secondo cui una qualunque decisione del Palazzo Ta-Ming potesse essere sbagliata. Sarebbe equivalso a negare il sacro mandato del cielo, assolutamente giusto e pienamente soddisfatto dall’imperatore in carica. Le principesse erano moneta, nel mondo. Cos’altro avrebbero potuto essere? In che altro modo avrebbero potuto servire l’impero, giustificare la loro esistenza?

Tai fissava ancora le parole vergate sulla carta giallognola, sforzandosi di dare una parvenza di ordine ai pensieri che gli vorticavano nella testa. Bytsan rimaneva silenzioso, lasciandogli il tempo di riprendersi, o di provare a farlo.

Donare a un uomo uno dei rinomati cavalli sardiani era una ricompensa grandiosa. Concedergliene quattro o cinque avrebbe significato elevarlo al di sopra dei suoi simili, conferendogli un rango più che elevato; attirandogli le gelosie, finanche mortali, di quanti cavalcavano i piccoli cavalli delle steppe.

La principessa Cheng-wan, regale consorte di Tagur da ormai venti pacifici anni, gli aveva appena fatto dono, con l’autorizzazione della corte, di duecentocinquanta Cavalli Celesti.

Quello era il numero. Tai lo lesse ancora una volta.

Era scritto nel rotolo che teneva tra le mani, vergato in Kitan, con la calligrafia esile ma attenta di uno scriba Taguran.

Duecentocinquanta Cavalli Celesti. Concessi in dono a lui, e a nessun altro. Non era un dono per il Palazzo Ta-Ming, per l’imperatore. No. Era un dono offerto a Shen Tai, secondo figlio del generale Shen Gao, un tempo comandante dell’Ala Sinistra dell’Occidente Pacificato.

Erano suoi, poteva usarli e disporne come meglio credeva, diceva la lettera, in qualità di regale riconoscimento da parte di Rygyal per il suo coraggio e la sua compassione, e per l’onore reso ai morti di Kuala Nor.

«Tu conosci il contenuto di questa missiva?» La sua stessa voce gli sembrava strana, mentre pronunciava quelle parole.

Il capitano annuì.

«Mi uccideranno, per questo» continuò Tai. «Mi faranno a pezzi per impossessarsi dei cavalli prima ancora che possa avvicinarmi a corte.»

«Lo so» disse calmo Bytsan.

Tai lo squadrò. Gli occhi scuri dell’altro rimanevano imperscrutabili. «Lo sai?»

«Be’, ci sono buone probabilità. È un dono notevole.»

Un dono notevole.

Tai rise, un po’a corto di fiato. Scosse la testa, incredulo. «In nome di tutti i nove cieli, non posso certo attraversare come niente fosse il passo dei Cancelli di Ferro con duecentocinquanta...»