Eccoci arrivati all’evento planetario del 2004: le Olimpiadi. Si calcola che 4 miliardi di persone assisteranno alla manifestazione, un evento che quando fu pensato ebbe il potere di far interrompere delle guerre (mentre ai giorni nostri accade purtroppo il contrario).

La solenne competizione sportiva fu senza dubbio istituita fra i greci anche per raccogliere insieme i principali uomini dei differenti stati della Grecia, onde potessero avere l'opportunità di deliberare affari di pubblico interesse, ma è per ispirare alla gioventù l'amore della gloria che i greci decisero di inventare le competizioni. I giochi Olimpici erano in primo luogo una cerimonia religiosa in onore di Zeus: si tenevano su un terreno sacro ai piedi del tempio dedicato al dio, che veniva invocato dagli atleti nel corso del solenne giuramento di lealtà sportiva, momento culminante della giornata di apertura.

Era una delle rare occasioni in cui uomini di Paesi, perfino di gruppi etnici diversi, condizioni politiche, sociali e culturali diversissime, si ritrovavano a gareggiare insieme, da pari a pari, nel segno del più puro agonismo.

Un avvenimento di portata universale, capace di creare un temporaneo vincolo di unione tra città separate e spesso in lotta tra loro.

Mappa delle località di provenienza degli atleti partecipanti alle olimpiadi del quinto secolo a.c.
Mappa delle località di provenienza degli atleti partecipanti alle olimpiadi del quinto secolo a.c.

La prima vera Olimpiade si svolse nel 776 a.C.; ne conosciamo ancora il nome del vincitore, un certo Corebo, proclamato tale il 15 luglio di quell'anno. Da allora si cominciò a registrare i giochi olimpici, che si tenevano ogni quattro anni. Questo quadriennio, detto propriamente Olimpiade, servì ai Greci anche per il computo dei tempo, anziché l'anno solare; tale era appunto l'importanza che si attribuiva ai giochi olimpici, considerati un evento nazionale al di sopra delle faide dei numerosi stati greci.

La prima olimpiade, durò solo un giorno e si disputarono due sole gare: una corsa di bighe sulla distanza di 13 chilometri, e una corsa a piedi su una distanza di 192 metri.

Successivamente vennero aggiunte le specialità allora conosciute: dalla corsa delle quadrighe su una distanza di 15 chilometri al lancio del disco, dal giavellotto al salto in lungo, dalla lotta libera alla corsa. Generalmente le gare duravano 5 giorni al termine dei quali gli Elladonici, cioè i sovrintendenti alle gare, incoronavano i vincitori con l'ulivo selvatico.

La fortuna delle gare olimpiche, dopo la conquista della Grecia da parte dei romani, durò fino al 396, anno in cui, vuoi per una generale degenerazione dello sport nella Roma di quegli anni, vuoi per volere dell'Arcivescovo di Milano S.Ambrogio, che vi vedeva una manifestazione di paganesimo. L'Imperatore d'oriente Teodosio, le abolì definitivamente.

La Storia:

Il loro primo istitutore sembra essere stato Pelope, il giovane che il padre mise a morte facendolo strozzare, poi lo imbandì per un sacrificio agli Dei. Si disse che Giove mosso a pena, mentre lo sacrificavano al banchetto gli ridonò la vita. (Forse chi lo strozzò non aveva stretto molto, caduto in morte apparente rinvenne sgomentando chi lo doveva sacrificare)

Pelope volle celebrare questo ritorno con la sua gente con una grande festa allestendo una competizione proprio di lotta simulata, il kratos; poi si aggiunse il pugilato, infine altre gare come la corsa.

Dunque erano già in uso i Giochi ai tempi di Pelope già mille anni prima (1700 a.C. Ndr.) della loro ufficiale data di nascita. Con molta probabilità possiamo considerarlo generalmente l'istitutore dei Giochi secondo la tradizione. Ma nessuna data particolare era da principio destinata per la loro celebrazione, erano occasionali, e verso l'800 a.C. quasi se perse il ricordo.

Solo nell'anno 784 a.C., Re Ifito quando conquistò l'Elide, ebbe notizia di questa usanza quasi dimenticata e la riportò alla luce (De Coubertin, li ripropose anche lui dopo 1172 anni.). Questi giochi erano anticamente consacrati a Giove (Zeus) e si svolgevano nelle vicinanze di Olimpia, città nel distretto di Pisa, che proprio Ifito aveva alcuni anni addietro conquistato come territorio. Volendo celebrare una grande e indimenticabile festa, gli abitanti vinti gli proposero il ritorno a questa singolare antichissima manifestazione che oralmente veniva ricordata.

Si celebrarono così i "Giochi dell'Olimpico Giove". Poi chiamati Olimpiade. Il successo non mancò. Tutta la gioventù non parlò d'altro per mesi e mesi, prima e dopo le gare.

Quel che resta dello stadio olimpico
Quel che resta dello stadio olimpico

L'impegno per organizzarle fu grande, le spese pure, qualcuno si affrettò a dire che erano "spese pazze", e fu deciso, forse proprio per quest'ultimo motivo, di ripetere i Giochi ogni quattro anni

Questo il periodo e lo spazio tempo posto fra l'una e l'altra celebrazione. Vari antichi autori iniziarono così a stabilire tutto la loro cronologia della storia sulle Olimpiadi (fu lo storico Timeo ad adottare questo elemento di computo cronologico cominciando da quella che ebbe luogo 776 a.C. Del resto non era in uso un calendario. Anzi, per alcuni secoli, per ricordare gli anni si iniziò a citare il nome del vincitore della corsa dei carri, la gara più famosa e ambita di ogni stato partecipante.

I criteri di partecipazione

I criteri di ammissione erano piuttosto rigidi; inoltre, fino alla trentaseiesima edizione, poterono gareggiare soltanto gli aristocratici. In seguito la partecipazione fu allargata a tutti i cittadini greci di condizione libera che non avessero mai subito condanne. Vi fu anche un progressivo allargamento della regione di provenienza dei concorrenti, agli inizi limitata alla sola Elide; con il passare del tempo, e la crescita di importanza dei Giochi, cominciarono ad affluire atleti da tutto il mondo greco e, in epoca romana, da tutti i territori dell'impero.

Rimane invece invariata nei secoli la discriminazione nei confronti delle donne, mai ammesse né in veste di atlete né di spettatrici. Al sesso femminile era riservata una sorta di Olimpiade minore, che iniziava subito dopo la chiusura dei giochi maschili ed era consacrata alla dea Era.

Le discipline:

La corsa

Era considerata come il principale esercizio dei giochi olimpici. L'Arena era chiamata stadio dalla misura di tal nome contenente circa seicento piedi, ed era anticamente l'intero spazio destinato per l'esecuzione di tutti gli esercizi.

Quelli che correvano era schierati in una linea dritta e al momento del segnale uscivano fuori dalle mosse con una rapidità sorprendente. Nella corsa più breve quello che arrivava il primo era dichiarato vincitore; ma c'erano corse più lunghe nel quale guadagnata la meta, tornavano alla barriera (Staffetta). Corse ancora più lunghe erano quelle dove si era obbligati a ripetere quattro volte, otto volte e anche dodici volte il percorso.

Le prove quindi erano tre: la prima di velocità (circa 200 m), la seconda di mezzofondo (circa 400 m), la terza di fondo (poco più di 5000 m).

Tutte e tre le gare di corsa si articolavano in quattro eliminatorie disputate da quattro atleti ciascuna, con i vincitori che accedevano alla finale.

Le corse con cavalli:

Le corse dei cavalli con fantino, benché tenute in un considerevole grado di stima, e di grande spettacolo, non erano così comuni; infatti, in quegli antichi tempi quando l'uso delle staffe era ignoto, doveva esser richiesta gran destrezza per mantenersi sopra il cavallo senza ruzzolare a terra.

Durante la quarta giornata il teatro delle competizioni non era lo stadio, bensì il vicino ippodromo (lungo 770 m), dove si disputavano, in successione, le corse dei carri e quelle dei cavalli.

Le corse dei carri erano le più famose di tutte; non solamente perché antichi Principi ed Eroi generalmente combattevano dai carri; ma anche perché quelli che disputavano il premio in quell'esercizio ai giochi Olimpici, erano persone della più nobile nascita, o distinte per la grandezza delle loro gesta. Due Re di Siracusa, Gelone e Jerone, e Filippo Macedone, contavano fra i loro più alti onori l'aver ottenuto la palma della vittoria in questa disputa. Questi cocchi erano tirati da due o quattro cavalli posti di fronte. Quindi la parola, bi-ga, ha un cocchio da due cavalli e quadri-ga, ha un cocchio da quattro. Tutti i cocchi uscivano dal luogo delle mosse, chiamato Carceres, solo quando era dato il segnale.

Le corse dei carri e dei cavalli rappresentavano in primo luogo uno spettacolo di velocità, abilità e azzardo, in cui gli incidenti erano frequenti quanto rovinosi e la partecipazione del pubblico intensissima, ai limiti del rapimento. Gli aurighi stavano ritti in piedi a gambe divaricate su carri leggerissimi, impugnando con una mano le briglie e con l'altra la frusta, mentre i cavalieri, nudi, cavalcavano senza sella.

Il luogo di ciascuno dove correre, se a destra o a sinistra, si determinava a sorte; poiché alcuni luoghi erano molti più vantaggiosi di altri; quelli ad esempio posti a manca restavano più vicini alla meta intorno alla quale dovevano girare, mentre quelli a destra avevano più largo il circuito da percorrere; i posti occupati da ciascuno avanti la partenza venivano necessariamente alterati nel tratto del corso, poiché i più rapidi cavalli e gli aurighi più esperti s'impossessavano subito alla partenza del lato più vantaggioso, quello interno, che è ovviamente più corto.

Di tutti gli Ateniesi fu Alcibiade il più ambizioso per distinguersi in questi Giochi. A tale oggetto egli teneva un gran numero di cavalli; mandò in una sola volta perfino 7 cavalli per guadagnare così almeno un premio. Un giorno in cui egli guadagnò i tre primi premi dette un gran banchetto dove invitò non solo gli atleti ma anche tutti gli spettatori. Queste vittorie di Alcibiade furono persino rese immortali da una famosa Ode composta dal celebre Euripide.

La lotta:

Le sfide degli atleti, o gli esercizi ginnici formavano la rimanente parte del divertimento ai Giochi. Gli atleti si preparavano a questa pubblica mostra della forza e destrezza, con una regolare educazione non solo delle membra, addestrandosi nelle varie discipline; ma per osservare anche una educazione dello spirito. Infatti, dobbiamo far notare al lettore che nessun Greco che aveva qualità morali compromesse, o commesso cose gravi nel suo paese, poteva partecipare ai Giochi. Severissima la scelta nelle città degli atleti, per non rovinare la fama del proprio luogo dov'egli abitava.

I diversi esercizi nei quali si contrastavano gli atleti erano: la lotta, il pugilato, il pancrazio, il lancio del disco, del giavellotto e il salto. Una particolare menzione e grosso premio di grande prestigio era per quell'atleta che partecipava a tutti i cinque esercizi e otteneva buoni risultati. Proprio perché cinque fu detto del pentathlon.

Discobolo nel particolare di una kýlix attica (sec. V a. C.; Boston, Museum of Fine Arts).
Discobolo nel particolare di una kýlix attica (sec. V a. C.; Boston, Museum of Fine Arts).

Le regole delle discipline di lotta sono simili alle attuali. Fa eccezione il pancrazio (kratos é l'intera forza del corpo) una tecnica di combattimento che univa la lotta e del pugilato; poiché i combattenti adoperavano tutti i mezzi della forza per superarsi, stringer la gola, far sgambetto e simili praticati dall'uno, e usati dall'altro. Avevano persino libertà di percuotere con i piedi e fare uso delle unghie e dei denti.

Per quanto riguarda il pugilato i disputanti combattevano con pugno armati di cesti, una sorta di guanti di striscie di cuoio foderato di lastra di ferro, per rendere i colpi più violenti. Per preservare dalla contusione le loro teste, usavano una sorte di larga berretta imbottita. Qualche volta dopo aver lungo tempo conteso rimanevano così esausti dal sudore e dalla fatica, che erano obbligati a sospendere l'incontro per un poco di tempo per poter prendere lena e rinfrescarsi. Queste mischie alle volte li sfiguravano orribilmente, lasciando tutte le membra coperte di dolorose contusioni, con le ossa delle guance rotte, alle volte anche con un occhio fuori, e talvolta cadevano morti sul campo con un solo pugno alla parte del mento o a destra e a manca del viso.

Il pentatlon:

La quinta giornata doveva designare il più completo tra tutti gli sportivi, il vincitore della gara di pentathlon, specialità composta da cinque prove, nell'ordine: salto in lungo, lancio del giavellotto, corsa, lancio del disco e lotta. Nella prima prova gli atleti spiccavano il salto impugnando dei pesi, che si credeva rendessero più efficace il gesto atletico. Il giavellotto era di legno, e i risultati migliori si attestavano intorno ai sessanta metri. I pentatleti si misuravano quindi nella specialità della corsa veloce, che ricalcava esattamente, quanto a distanza e regole, la gara disputata durante il secondo giorno.

La chiusura dei Giochi

La manifestazione che concludeva la quinta giornata, la corsa con le armi, aveva infatti un carattere soprattutto dimostrativo e spettacolare: i partecipanti, armati di tutto punto (con tanto di elmi e corazze), percorrevano due volte la lunghezza della pista, mimando anche scene di combattimento. Il giorno seguente si teneva la cerimonia di chiusura, che comprendeva anche la solenne premiazione dei vincitori di tutte le gare. Chiamati uno a uno dagli araldi, i vincitori ricevevano il premio daglihellanodices, che ponevano loro sul capo una corona intrecciata con rametti di un ulivo sacro, e sfilavano dinanzi al pubblico. Un grande banchetto, dopo il tramonto, chiudeva la giornata e i Giochi.

Lo spirito che animava i Giochi Olimpici era, almeno all'origine, quello di un sano agonismo; occorre tuttavia sgomberare il campo da un equivoco generato, verso la fine del secolo scorso, dal recupero del mito di Olimpia da parte del barone de Coubertin: anche alle Olimpiadi dell'antichità l'importante non era affatto partecipare, ma vincere. Alla fine delle gare di corsa, i tre atleti battuti si ritiravano immediatamente, per lasciare al vincitore tutti gli applausi e le acclamazioni dei quarantamila spettatori che riempivano lo stadio.

I campioni:

Milone fu certamente il più grande atleta che sia mai esistito, sulle tavole antiche il suo nome compare sempre al primo posto in ogni gara svolta nell'antica Grecia, il suo dominio assoluto durò per circa venti anni durante i quali rimase pugile imbattuto.

Vinse la sua prima Olimpiade nel 540 a.C. nella lotta categoria ragazzi, seguirono successivamente altre cinque vittorie olimpiche di fila nella categoria superiore, datate 532, 528, 524, 520 e 516 a.C. in una di queste Milone vinse senza disputare la finale, in quanto l'avversario (altro atleta crotoniate allievo dello stesso Milone) non volle lottare contro il suo maestro.

Il pugile crotoniate vinse anche ben 10 volte alle gare Istmiche, 9 volte alle Nemee e 6 volte ai giochi Pitici di Delfi che si tenevano in onore di Apollo.

Statua di Milone
Statua di Milone

Tanta gloria rese Milone uno dei personaggi più illustri e famosi del mondo Ellenico, conosciuto ovunque quasi come un dio ed al suo nome sono legate molte leggende tramandate dagli storici antichi.

La sua forza proverbiale salvò l'intero gruppo aristocratico guidato da Pitagora che governava la città di Kroton, in occasione di un terremoto che colse il gruppo dirigente mentre era in riunione proprio in casa di Pitagora; Milone si sostituì ad una colonna spezzata dal sisma reggendo sulle sue spalle il soffitto dell'abitazione per quei minuti necessari a sgomberarla completamente.

Vestito a mò di Eracle (con la pelle di leone sulle spalle) guidò l'esercito crotoniate nella famosa vittoria contro i Sibariti del 510 a.C. Persino il medico Democede, sfuggito dalla Persia e rifugiatosi nella sua Crotone, per convincere il re persiano Dario a desistere dal riportarlo indietro, sposò in tutta fretta una figlia di Milone, poichè la fama del grande pugile e condottiero crotoniate non conosceva confini nel mondo antico, e tanto fu che dario di persia desistette dai suoi intenti.

Intorno alla sua morte la leggenda narra di un grosso albero di ulivo sezionato da un fulmine, nel quale Milone infilò le mani per divaricare e spaccare completamente il tronco, ma abbandonato dalle forze l'Olimpionico rimase bloccato e finì dilaniato dalle belve feroci.

La statua che lo rappresenta al Foro Italico di Roma lo ritrae erroneamente con un pallone tra le mani, ma la sua disciplina era il pugilato.