La leggenda vera diceva che l’eroe era destinato a morire, dopo essere arrivato laddove nessun altro avrebbe potuto. L’eroe aveva superato tre prove, quella del sole, quella della pioggia e quella dei predatori, prima di affrontare il castello maledetto. Solo l’eroe era abbastanza temprato da poterlo fare, da potersi avvicinare alla fonte di tutti i mali, ma nemmeno l’eroe poteva uscire vivo dal posto che uccideva il mondo. L’eroe avrebbe distrutto il castello maledetto e poi sarebbe crollato a terra sputando sangue, per il veleno residuo.
Non era una storia che si poteva raccontare a dei bambini, men che meno a quelli che avevano smesso di urlare.
Il vecchio continuava a dare la caccia alle rane e ad asciugarsi al sole, cosicchè le maledizioni si sommassero e, lottando sulla sua pelle, si annullassero a vicenda. Rimaneva solo quella di continuare a campare, che ogni giorno gli sembrava sempre di più la peggiore.
Ultimamente capitava che qualche anfibio riuscisse ad azzannarlo, e questo era un grosso guaio, perché bastava una goccia di sangue nell’acqua per scatenare nugoli di bestiacce impazzite, che lo inseguivano un buon dieci passi oltre la linea, prima di ritirarsi per non seccare al sole. Ormai ci vedeva male, attraverso un velo opaco oltre il quale si muovevano sagome sfocate.
Come l’eroe della leggenda, aveva superato le tre prove, il sole e l’acqua e i mostri, e gli rimaneva solo il castello maledetto. Che non esisteva. Non c’era nessuna maledizione, il mondo era così e basta, forse c’era stata la guerra, come dicevano alcuni, forse era caduto qualcosa dal cielo, come dicevano altri, forse entrambe le cose, come dicevano tutti, ma il mondo era quello, punto.
Vennero dei banditi, espulsi da qualche comunità del mondo anfibio, e rimasero per molti giorni, prima di cadere nella duna del formicaleone. Vennero delle persone perbene, e rimasero una sola notte, prima di passare dalla parte della pioggia. Le rane ingrassarono moltissimo, dopo che furono scomparsi dietro la cortina d’acqua.
Tasan non tornava. Chissà quanto aveva urlato, per avere i capelli così bianchi. Di sicuro, per portarsi dietro tutto quell’oro, doveva aver liberato interi villaggi dagli animali. Aveva le spalle larghe, era forte, senz’altro a quel punto era arrivato molto lontano.
Il vecchio spolverava i suoi libri e cercava di leggerli, ma ormai era una fatica improba. Le lettere si confondevano come scarafaggi su uno sfondo grigiastro, e quel poco che ne evinceva, intuendo anziché leggendo, era fonte di frustrazione, non più di appagamento. Succhiava da un seno esausto e aveva ogni giorno più fame.
Quando arrivò il giorno in cui si accorse contemporaneamente che aveva dimenticato di segnare i giorni, cosicchè non sapeva più quanti ne fossero passati dall’ultima volta, e che un girino era scomparso quasi del tutto dentro il suo polpaccio, come un succhiello che si incista, il vecchio capì che era arrivato al suo confine personale.
La gamba non gli doleva, anche se la coda del girino si agitava e torceva, per aiutare la penetrazione in quell’ambiente pieno di cibo. Evidentemente, a forza di sommare le maledizioni, ne aveva scoperta una nuova, quella di perdere ogni contatto col proprio corpo. In un certo senso, era peggiore delle altre due, che almeno avevano l’onestà di farsi sentire e vedere, senza covare dentro per anni, in attesa che lui fosse troppo debole e stanco per combattere ancora.
Estrasse il parassita con la tenaglia del camino, provando niente più che un lieve fastidio, e lo schiacciò contro il muro. Toccò la carne viva con il ferro e non sentì niente.
Non aveva annullato due maledizioni. Le aveva soltanto sommate, e la somma dei veleni del mondo produceva quello che era diventato lui. Si chiese se anche l’eroe covasse in sè quel segreto, per aver superato le sue prove ed essersi immunizzato al veleno del sole, e poi a quello della pioggia. Se era così, poteva davvero arrivare al castello, e magari perfino distruggerlo. Ma lui non era l’eroe, lui era solo un vecchio che aveva cura dei libri perché non aveva nient’altro.
- Bene – esclamò, rompendo un silenzio che durava da un periodo indefinito, non più conteggiato dalle tacche sul muro – almeno io non urlerò. E non ho nemmeno i capelli bianchi. Li aveva persi tanti anni prima, sua moglie lo prendeva in giro per quella tonsura che si allargava sempre di più, e lui faceva finta di offendersi, finché sua moglie non era morta e nessuno più l’aveva preso in giro.
Si fasciò il polpaccio, senza sapere bene perché. Il sangue colava, ma non sentiva particolare dolore, e comunque presto ne avrebbe perso molto di più. Si disse che era per non indebolirsi prima del tempo.
Le monete non erano più sul tavolo. I banditi venuti dalla pioggia le avevano prese, e il vecchio li aveva lasciati fare, magari a loro sarebbero servite. Non le aveva ritrovate negli escrementi del formicaleone, forse erano in fondo alla duna.
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