Ringrazio Maurizio Nati per l'intervista a proposito della sua traduzione per Fanucci di La Città e la Città di China Miéville : conoscere l'"universo" di un traduttore aiuta a capire scelte linguistiche, stile e atmosfera di un'opera trasposta in una lingua differente da quella originale.
Il lavoro del traduttore nel suo complesso è poco conosciuto dai lettori. Qual è il “piano d’azione” di fronte a un testo da tradurre e quali sono le difficoltà maggiori, materiali e/o psicologiche?
Di solito, soprattutto quando si affrontano autori poco noti, è sufficiente il primo capitolo per capire con chi si ha a che fare e quale sia l’approccio giusto da adottare. Il resto viene di conseguenza. Si stabilisce una sorta di immedesimazione, e il traduttore diventa un medium che riceve un testo e lo restituisce diverso nella forma, ma uguale nello spirito. Le difficoltà derivano ovviamente dalla maggiore o minore complessità linguistica e stilistica, ma gli strumenti attualmente a disposizione in rete offrono quasi tutte le riposte. Utilissimo, quando è possibile, il rapporto diretto con l’autore, in genere tramite posta elettronica. Il resto lo fa la sensibilità e l’esperienza del traduttore.
China Mièville scrive un fantastico che possiamo definire di nuova generazione: quali libri ha letto di questo autore e cosa pensa del suo stile?
Devo essere sincero, non avevo letto nulla. È stata un’autentica sorpresa. Solo in seguito, affascinato da questo autore, ho letto Un regno in ombra e Perdido Street Station. Gli altri sono purtroppo fuori catalogo, al momento. PSS mi ha incantato per la vastità del respiro e per lo stile straordinario, convincendomi che Miéville è senza ombra di dubbio una delle grandi voci del fantastico contemporaneo.
Nella versione italiana di The City & The City mi incuriosisce la gestione del linguaggio: l’autore ama inventare parole, utilizzare ibridi linguistici, neologismi. Un testo come TC&C è una sfida o un problema?
Bella domanda. Mi verrebbe da rispondere “l’una e l’altro”: è una sfida perché mette a dura prova le capacità del traduttore e lo costringe a dare il meglio di sé, è un problema perché si teme sempre che la resa non sia all’altezza dell’originale. In realtà poi un testo così complesso finisce col diventare un’avventura che richiede tanto mestiere e tanta attenzione ai dettagli, nonché un orecchio particolare che un traduttore di lunga militanza ha in genere piuttosto sviluppato.
Alcuni termini nella versione italiana sono rimasti in originale, altri sono stati tradotti letteralmente, altri ancora sono “interpretati”. Come mai è stato scelto un sistema eterogeneo?
Sono scelte che si fanno in corso di traduzione, a volte con il cuore e non con il cervello. Scelte personali, ovviamente, e magari a volte discutibili, ma il traduttore deve assumersi certe responsabilità. Basti pensare, per esempio, alla traduzione di The Lord of the Rings, in cui molti nomi geografici e di persone sono stati tradotti, altri interpretati, altri ancora del tutto reinventati. Non è raro, comunque, che l’espressione inglese suoni bene anche all’orecchio italiano, già avvezzo da decenni al suono di quella lingua. Un romanzo come questo, con la sua collocazione così ambigua nello spazio, consente, anzi stimola, un’ampia gamma di soluzioni, anche ardite: l’importante è non perdere di vista una certa coerenza interna.
Volendo fare un esempio d’interpretazione, consideriamo Copula Hall [n.d.r: l’unico punto di contatto “legale” fra le due città, Besźel e Ul Qoma], tradotto con Camera Comune. Non pensa che questa soluzione diminuisca l’impatto del termine originale?
Copula Hall è rimasto Copula Hall fino alla prima revisione, ma in qualche modo non mi convinceva del tutto, non mi suonava giusto. Il termine stesso “copula” in italiano ha una valenza che rischia di essere fuorviante, così ho scelto di cambiare e ho adottato una soluzione che reinterpreta in modo formalmente corretto l’originale senza perdere in solennità. Anche in questo caso una scelta del traduttore, dunque, che può essere condivisa o meno, ma a tutt’oggi non me pento.
Un altro esempio – questa volta si è lasciato più o meno l’originale – è “grosstopico”: L’autore ne fornisce una spiegazione, ma non risulta comunque oscuro per chi non conosce l’inglese?
Miéville è uno di quegli autori di qualità (mi viene in mente anche il Delany di Dhalgren che tradussi anni fa) che tendono a coinvolgere il lettore richiedendogli uno sforzo particolare di comprensione. Non si fa scrupolo di essere criptico, spesso non gli fornisce spiegazioni e non si preoccupa di offrirgli strumenti di lettura del testo: lo mette in condizione di giungere a capire un neologismo semplicemente inserendolo in un contesto che ne illumina il significato, fino a che esso assume una connotazione ben precisa ed entra a far parte del vocabolario del libro. Questo non è un romanzo per lettori distratti, e probabilmente lo stesso Mièville non cerca lettori distratti.
Dopo una traduzione, le bozze vengono passate al revisore che ha un certo potere decisionale sull’approvazione del testo: come è stato il suo rapporto con il revisore? Collaborativo, oppure ci sono state delle divergenze?
Sono anni che lavoro per l’editore Fanucci e non ho mai avuto problemi con i revisori. Ogni tanto mi rivolgono delle domande sul perché di qualche scelta linguistica o lessicale, ma in genere non mi risulta che abbiano mai messo mano in modo pesante sui testi che invio. Anche perché tendo a offrire un prodotto finito piuttosto accurato, con più di una revisione, in modo da agevolare il loro lavoro.
Nei suoi progetti lavorativi futuri esiste la probabilità di una traduzione di Kraken o di Embassytown?
Che io sappia no, almeno non al momento attuale. Ma dal momento che fino a oggi Fanucci ha pubblicato Miéville in esclusiva non vedo perché non dovrebbe continuare a farlo. Se poi affiderà a me la traduzione, è un’altra storia.
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