Il silenzio è perfetto, così assoluto che il rumore del suo respiro sembra assordante. Forse era meglio prima, pensa Eshar, quando tutto il bosco risuonava di fruscii e versi animali. In questa quiete irreale è come se il suo dolore fosse amplificato, fino a diventare intollerabile. Eshar piange. Non riesce a smettere. Per quanto cerchi di fermarle, le lacrime continuano a scorrere lungo le guance, bollenti. Ha senso ciò che sta facendo? È giusto continuare a inseguire l’ombra di un sogno in quel luogo maledetto? La voce di lei risuona nella sua mente: Non siamo soli… non lo siamo mai stati… Forse è tutta un’illusione e la sua ricerca finirà lì, non appena lo troverà uno degli animali che ruggivano poco prima nel folto del bosco.
Il piede incontra una grossa radice sporgente ed Eshar cade bocconi. Impreca, stringendo disperato le foglie secche che coprono il terreno. Non può farcela da solo. Ha sempre avuto qualcuno cui appoggiarsi: i suoi padroni, che disponevano completamente della sua vita, poi Almodio… e infine Lajke. Si chiede quale oscuro cammino l’abbia portato al Bosco del Ritorno. Fino a tre anni prima era uno schiavo che conduceva una vita forse miserabile, ma in fondo rassicurante nel suo essere totalmente in balia della volontà altrui. E adesso invece cos’è? La libertà vale la disperazione senza fondo che lo attanaglia? La sua mente ritorna a tre anni prima, al momento che ha dato il via a ogni cosa. A un lontano giorno di pioggia.
Un giorno di pioggia
«Sacchi! Servono altri sacchi!» urlò Molteno.
La pioggia scrosciava incessante e quasi si mangiava le sue parole. Pioveva da quattro giorni, ininterrottamente. All’inizio era sembrata una benedizione, perché la siccità quell’anno non aveva dato tregua. Poi però il fiume aveva iniziato a ingrossarsi e i campi ad allagarsi: tutto il raccolto rischiava di andare perduto. Gli schiavi avevano formato una lunga catena umana, che dalla casa si snodava fino all’argine del fiume. Eshar si volse attendendo che il suo vicino gli passasse un sacco, ma quello si limitò a guardarlo con aria sperduta e le mani vuote. «Padrone, non ce ne sono più!» urlò Klath, il più anziano, che chiudeva la catena. Davanti a lui, la barriera improvvisata che avevano eretto con i sacchi pieni di terra iniziava già a mostrare segni di cedimento; l’acqua era quasi arrivata al bordo e fluiva tra sacco e sacco in ampi spruzzi scuri. Molteno scattò in avanti, il Bastone stretto tra le mani, e colpì Klath con tutta la sua forza. Lo schiavo si piegò in due urlando per la sofferenza provocata dalla Pietra dell’Aria, incastonata in cima al Bastone, ma Molteno non si fermò. Continuò a infierire fino a quando il vecchio non giacque al suolo, inerte. Poi si voltò verso gli altri schiavi.
«Toglietevi le tuniche, legatele e riempitele di terra, avanti!» gridò.
Eshar guardò il suo vicino, esitando. Tremavano sotto le sferzate incessanti della pioggia, e il rombo del fiume in piena sembrava il ruggito di un animale infuriato. A cosa potevano servire le loro misere tuniche?
«Muovetevi!» gridò ancora Molteno bastonando il primo schiavo che gli capitò sotto mano. I Femtiti non provavano dolore se non attraverso il Bastone: la magia della Pietra dell’Aria era in grado di generare in loro ondate di paura incontenibile, la sensazione dell’anima strappata a forza dal corpo. E così Eshar e gli altri si affrettarono a obbedire.
© 2012 Licia Troisi
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID