Bene, allora sarei stata cauta anch’io. Aspettai per cinque minuti… secondo il mio orologio digitale… prima di provare a muovermi.
Poi mi addentrai nell’oscurità dell’arboreto, senza seguire nessun sentiero e procedendo al buio il più silenziosamente possibile. Avendo trascorso ore a girovagare per Shakespeare di notte, conoscevo la pianta dell’arboreto quanto quella della mia casa, e non faticai a calcolare dove avrei incrociato il sentiero.
Nel fitto della vegetazione, l’oscurità era così assoluta che mi chiesi se sarei riuscita a trovare la cosa scaricata là dal ladro; se i miei jeans non avessero strusciato contro la plastica, che emise il suo tipico secco fruscio, avrei potuto girare a vuoto per il sentiero per un’altra ora.
Nel momento in cui sentii quel suono, però, mi lasciai cadere carponi e presi a tastare l’oscurità circostante fino a scoprire che l’involucro non era un telo di plastica ma due grossi sacchi per i rifiuti, uno infilato dall’alto e l’altro dal basso, in modo che si sovrapponessero nel centro e coprissero… qualcosa di grosso e morbido. Provai a tastare il sacco. Si avvertiva qualcosa di duro sotto lo strato morbido, qualcosa che aveva delle sporgenze e che somigliava spaventosamente a un costato umano.
Mi morsi il labbro inferiore per non emettere suoni.
Lottai in silenzio contro l’impulso quasi sopraffacente di scattare in piedi e di fuggire, ma dopo aver tratto parecchi profondi respiri riuscii a sconfiggerlo. Chiamai quindi a raccolta il coraggio per fare quello che dovevo, ma non ci riuscii in quel buio assoluto.
Infilata una mano nella tasca della giacca a vento, tirai fuori una sottile, leggera ma potente torcia elettrica che aveva attirato la mia attenzione al Wal-Mart, poi modificai la mia posizione accoccolata in modo da interporre il mio corpo fra il condominio e la cosa sul terreno prima di azionare la torcia.
M’infuriai con me stessa nel vedere come mi tremava la mano nel separare i due sacchi. Armeggiando, riuscii a creare un’apertura di una decina di centimetri, e a quel punto mi fermai. Stavo guardando una camicia maschile a scacchi arancione e verde, lacera e alquanto sbiadita. Il taschino sul petto si era impigliato in qualcosa e si era strappato parzialmente, tanto che ne mancava un frammento.
Riconobbi la camicia, anche se non era stata lacerata, l’ultima volta che l’avevo vista.
Sollevai ancora un poco il sacco, su un lato, fino a trovare una mano, e premetti le dita sul polso, nel punto in cui se ne sarebbe dovuto avvertire il battito.
Nella gelida notte di Shakespeare, mi ritrovai accoccolata in mezzo agli alberi a stringere la mano di un morto.
E avevo lasciato le mie impronte dappertutto.
Circa quaranta minuti più tardi ero seduta nella mia stanza da letto, ed ero finalmente esausta.
Avevo rimosso i sacchi dal cadavere.
Avevo confermato la sua identità e il fatto che era un cadavere. Niente respiro, o battito cardiaco.
Ero uscita dall’arboreto, consapevole che stavo lasciando delle tracce, ma impotente a fare qualcosa al riguardo: le tracce che avevo lasciato nell’entrare non potevano essere cancellate, quindi avevo pensato che tanto valeva crearne anche in uscita. Ero emersa dai cespugli sulla Latham e avevo attraversato la strada nel punto in cui nessuno poteva vedermi dagli appartamenti, poi mi ero spostata da un riparo al successivo fino ad aggirare la casa di Carlton Cockroft, attraversando in silenzio il suo giardino posteriore fino a raggiungere il mio.
Avevo anche scoperto che il ladro aveva rimesso il carretto al suo posto e caricato di nuovo su di esso i bidoni dei rifiuti, ma non nel modo in cui li avevo sistemati io. Quello blu era sempre sulla destra e quello marrone sulla sinistra, mentre il ladro ne aveva invertito l’ordine. Aperta la porta sul retro, ero entrata senza accendere la luce, poi avevo prelevato due legacci da un cassetto della cucina e sfilato dai bidoni il sacchetto interno, dopo aver infilato quelli usati per coprire il cadavere, avevo legato e rimesso all’interno i sacchetti del pattume. Non potevo esaminare il carretto al buio, e spingerlo in casa avrebbe causato troppo rumore, quindi avevo deciso di attendere fino al mattino.
Avevo fatto tutto il possibile per cancellare ogni traccia della mia involontaria complicità.
A quel punto avrei dovuto essere pronta ad andare a letto, ma mi ritrovai a mordicchiarmi un labbro. La mia solida educazione medio-borghese stava sollevando la testa con severità, come faceva nei momenti più scomodi e inattesi. I resti mortali di qualcuno che conoscevo giacevano là fuori al buio, in solitudine, e questo era sbagliato.
Non potevo chiamare il dipartimento di polizia. Era possibile che le chiamate in arrivo venissero registrate o rintracciate in qualche modo, perfino nella piccola Shakespeare. Forse potevo semplicemente dimenticarmi di tutto, giusto? Al mattino qualcuno di certo lo avrebbe trovato. Però si sarebbe potuto trattare dei bambini che vivevano sulla Latham… in quel momento mi venne in mente chi potevo chiamare.
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