– Non so più cosa credere – ammise alla fine – Tutto mi sembra confuso, come in un gioco di ombre. Quel demone mi avrebbe ucciso o peggio, di questo sono sicuro, come del fatto che tu mi abbia aiutato, sebbene non riesca a capire in che modo. Ti devo la vita, ma ancora non sono in grado di leggere le tue vere intenzioni.

 La risata cristallina della ragazza lo scosse.

 – Quello non era un demone, ma una semplice driade. Uno spirito degli alberi. Vivevano su queste terre prima degli Angli, dei Sassoni e dei Romani, prima ancora dei Pitti e dei Gaeli, ma ormai sono rimaste in poche, piene di rancore per le loro foreste cadute sotto le scuri degli uomini. È difficile, comunque, che attacchino apertamente un uomo armato e pericoloso, ancorché solo. In genere, preferiscono i bambini. Credo sia stata la mia presenza ad attrarla, in effetti. Sono pur sempre creature sensibili alla magia, e io porto ancora con me quella del regno di Elfhame.

 Il cavaliere non disse nulla, sebbene tali parole avessero fatto correre brividi gelidi lungo la sua schiena, ancor più del braccio di Livith stretto intorno alla vita.

 La ragazza seppe interpretare il suo silenzio.

 – Una storia, Edric figlio di Richard, ti devo: la mia. Prima, però, consentimi almeno di domandarti quale ragione ti ha spinto a vagare per le brughiere del Kent.

 – Livith Sterling, figlia di nessuno, tale ragione risiede in un voto. Ti ho detto di mio padre, Richard l’Assassino, tre volte traditore, scomunicato dalla Chiesa, al di là del perdono Reale, maledetto agli occhi di Dio e degli uomini, odiato e disprezzato al punto che nemmeno un cane rognoso accetterebbe l’avanzo della sua tavola. Ma pure, mio padre. Non posso, non voglio che l’infamia dei suoi peccati gli sopravviva, e lo condanni alla morte eterna, pertanto ho giurato di redimere la sua anima, con la parola e con l’esempio.

 – La via del Paradiso è dunque quella che accompagna a casa una ragazza dopo il tramonto? – domandò Livith, divertita.

 – Anche. – Edric non riuscì a evitare di sorridere.

 – otto anni- disse la ragazza, dopo un lungo minuto di silenzio – otto anni avevo, quando mi prese l’Uomo Dorato.

 Il cavaliere strinse più forte le redini, e ascoltò.

 – Lo chiamavo in questo modo perché tale era il colore dei suoi capelli e dei suoi occhi. Mi sembrò la cosa più strana del mondo. Quando ero piccola, e ancora vivevo con i miei genitori, ero sempre sola. Mamma voleva che restassi a casa tutto il giorno, tutti i giorni. C’era sempre da tessere e da filare, qualcosa da cucire o da rammendare, e intanto papà e i miei fratelli potevano stare tutto il tempo che volevano fuori, all’aria aperta, nei campi. Certo, si lamentavano, dicevano che il loro era un lavoro duro, ma io li invidiavo con tutto il cuore. Mi piaceva camminare tra gli alberi, sotto il sole, togliermi le scarpe e sentire la terra fra le dita. Così, ogni volta che potevo, scappavo, correvo via, per i boschi attorni al villaggio. Sapevo che al ritorno papà sarebbe stato ad aspettarmi, con la cinghia  in mano quando era veramente irritato, ma non me ne importava. Le anziane dicevano che le selve erano pericolose, casa di lupi, cinghiali e folletti. Io vi trovai l’Uomo Dorato. Meglio, lui trovò me.

Livith strinse più forte la vita di Edric, con un sorriso amaro sul volto.

– Mi piacerebbe poterti parlare di Elfhame, la dimora dei sidhe, e di quello che vidi con i miei occhi – continuò – ma nella nostra dolce lingua inglese non esistono i termini adatti. L’Uomo Dorato mi condusse fino al palazzo di Niamh, la Luminosa, una delle signore più potenti di quel reame. Nel varcarne la soglia, pensai per un momento di trovarmi in una delle storie di principesse che mamma mi raccontava la sera.

Una risata amara scosse il suo corpo sottile.

 – Che stupida! Devi sapere, Edric, che i sidhe sono potenti e molto, molto orgogliosi, quasi come l’Angelo Caduto in persona. Io, per essi, ero poco più di un animale. Niamh mi faceva riempire di vino la sua coppa, minacciando di darmi alle guardie in caso di disobbedienza. Ero solo una bambina e capivo ben poco, di certi argomenti. Presto però ho imparato grazie alle attenzioni di Caolàn il Valoroso, l’Uomo Dorato, consorte della mia signora. Venne da me di notte e, mentre si prendeva la mia virtù, disse di amarmi. Rimase sinceramente stupido nonché leggermente irritato quando si accorse che ciò non asciugava le mie lacrime, né placava i miei singhiozzi.

 Il cavaliere si agitò in sella, a disagio.

 – Questo va detto, a favore del prode Caoàn amante di bambine, questo e poco altro: in tutto l’Elfhame, egli fu l’unico che mi trattò come una persona, ogni tanto, e non come una bestia demente. Per la maggior parte del tempo ero solo un giocattolo, il suo preferito, ma alcune sere parlava con me. Fu lui a donarmi il violino. Mi insegnò a suonarlo, e a istruirmi sulla Storia e la Magia. Per dieci anni il gioco andò avanti. Finché, un bel giorno, Niamh si stancò, e il gioco finì.