Silvana De Mari è una delle poche scrittrici italiane del genere fantasy le cui opere sono state tradotte all’estero. Non solo: L’Ultimo Elfo, primo romanzo della serie degli Ultimi, ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali, quali il Premio Andersen del 2004, nel 2005 il 48° Premio Bancarellino e Le Prix Imaginaire in Francia, nel 2006 il premio ALA America Library Association per il miglior libro per ragazzi tradotto in USA.
In un confronto con gli autori stranieri che vede sempre quelli italiani avere la peggio sia come stile sia come trame, cosa è stato che ha permesso a tale opera di avere successo anche oltre i confini nazionali?
Sicuramente il primo elemento che viene in mente è la leggerezza (che però non va intesa come superficialità) con la quale la storia viene affrontata: anche le situazioni più spinose e difficili vengono affrontate con il piglio semplice, candido, privo di malizia del piccolo Yorsh (uno nato da poco, come gli piace definirsi), intento a muovere i primi passi in un mondo che non conosce affatto, dato che ha trascorso i primi anni dell’esistenza insieme alla nonna in un Posto per gli Elfi. I paragrafi iniziali sono divertenti, nonostante il viaggio del piccolo elfo non sia certo dei migliori: cominciato al freddo, sotto la pioggia, senza niente da mangiare, con alle spalle un piccolo mondo di ricordi che non tornerà, non sembra proseguire nel migliore dei modi quando fa l’incontro con i primi due umani, creature disegnate dalla nonna come esseri che non brillano certo per la loro intelligenza. Già in queste prime pagine vengono portati a galla i pregiudizi che le due razze hanno l’una dell’altra: ma è proprio grazie all’incontro tra Yorsh e Monser e Sajra che viene mostrata la crescita del bambino che arriva a scoprire che la vita non è solo candore, ma anche fango e amarezza e cose dalle quali bisogna sapersi difendere; il tutto con toni capaci di strappare un sorriso e una lacrima, di trasmettere quel qualcosa di buono in grado di cambiare il modo di vedere le cose.
Alla leggerezza delle prime pagine vanno aggiunti la delicatezza, il tocco di fiaba e poesia, elementi che vanno a smussare i lati più taglienti dall’esistenza, mostrando quel senso di famiglia che i due umani usano per proteggere l’elfo orfano che sta crescendo, perché la durezza degli uomini non lo ferisca troppo a fondo, data la sua estrema sensibilità nei confronti della vita e di ogni sua creatura. È grazie a loro che sono mostrate la crescita e l’evoluzione di un personaggio che passa dell’età innocente e candida dell’infanzia a quella più dura che annuncia l’ingresso nell’età adulta, dove la tristezza, l’amarezza e la perdita hanno un impatto molto maggiore rispetto alle prime stagioni della vita, dove si ha avuto una maggior protezione. Una protezione che non tutti hanno avuto la fortuna di avere, come succede a Robi, una bambina che, dopo che i suoi genitori sono stati uccisi dal Giudice di Daligar perché ritenuti pericolosi per la sicurezza della contrada, è costretta a vivere in un orfanotrofio sottostando agli ordini di chi lo gestisce e alla sua durezza; un’esistenza, la sua, che per volontà del destino s’intreccerà con quella dell’elfo e ne verrà cambiata.
In un cammino che sa di viaggio iniziatico, celato dietro le sembianze di una semplice e piacevole avventura con un lieto fine scontato, Yorsh scoprirà il passato di suo padre e della sua razza (perseguitata e imprigionata come successo con gli ebrei finiti nei lager o i nativi americani rinchiusi nelle riserve), ma anche il futuro che lo attende attraverso un’antica profezia incisa nella pietra. Una profezia e un viaggio che lo porteranno all’incontro con l’ultimo drago esistente e alla scoperta di un’antica biblioteca contenente il sapere del mondo; un percorso che lo farà crescere, facendogli acquisire sicurezza e facendogli capire che chi possiede capacità deve metterle al servizio degli altri perché il mondo possa divenire un luogo migliore. E perché questo possa accadere occorre sapienza, conoscenza.
Proprio su questo punto, si sofferma la seconda parte di L’Ultimo Elfo, sottolineando come la comprensione sia necessaria per far capire come nella storia si siano potuti verificare certi eventi nefasti, analizzandone gli elementi scatenanti. Uno di questi è l’ignoranza, dove l’istruzione, la capacità di leggere (e quindi la possibilità d’attingere alla conoscenza) sono cose riservate a pochi individui che le sfruttano per dominare gli altri; un dominio dei governi che vuole che le popolazioni rimangano nell’oscurità del non sapere perché in questo modo sono maggiormente manipolabili e sfruttabili. Un’ignoranza che genera sempre paure, condizionamenti e soprattutto povertà, altri elementi su cui potenti e governanti prosperano e prolificano, che utilizzano per generare e alimentare odio verso coloro che vogliono eliminare perché visti come ostacolo e minaccia per il proprio potere.
Messaggio, quello lasciato dal romanzo, che è stato uno dei punti di forza che l’hanno fatto essere tanto apprezzato, vista l’importanza che dà all’uso dei libri, alla lettura e alla conoscenza: perché la cultura non è un semplice passatempo che non dà niente e che non merita attenzione, come spesso purtroppo negli ultimi anni si è sentito dire, ma è un mezzo per rendere migliore la vita, per dare alle persone gli strumenti per combattere condizionamenti, sfruttamenti, odi che il non conoscere può far nascere, e così poter essere finalmente degli individui liberi.
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