Etor si sedette spossato su uno sperone di roccia. Aveva numerosi tagli sulle gambe e sul torace, dove i pantaloni e il pettorale di cuoio rinforzato erano stati squarciati dalle schegge di un Grido di Lame lanciato da uno dei Capitani Gr’ravyen. Anche gli stivali erano ridotti quasi a brandelli e così pure i bracciali di cuoio sugli avambracci. Si passò le mani sul volto irsuto e si ravviò i folti capelli ramati in un gesto di stanchezza. Mantenne Inarra tra le gambe semiaperte, ringraziando dal profondo del cuore la spada sacra che gli aveva permesso di non soccombere al Grido di Lame.
Arcan dischiuse le labbra strette in un vago sorriso. I suoi occhi azzurri baluginarono come stelle nel firmamento notturno e si posarono fieri su quelli di Etor.
“Onore a te, Tekrat. Che Mahiheidon benedica la tua Isola”.
Si segnò la fronte e la bocca, poi distese il palmo verso di lui, com’era usanza del suo popolo.
“Onore a te, Tokrean” rispose Etor, ricambiando quel sorriso con la migliore smorfia che il viso stanco potesse concedergli, “che Mahiheidon benedica la tua Isola”.
Arcan si fermò davanti all’amico, poggiando il peso del corpo massiccio sulla gamba destra; sulle ampie spalle dormiva la sua Ascia, Ramunk, che brillava di un lucore vermiglio di sangue appena stillato.
L’arcipelago Tokrean era il più vicino dei Nove Regni all’arcipelago Tekrat, e i due eroi si erano conosciuti da bambini, quando il Tokrean era venuto in visita a Isola Giovane con il padre, mercante di spezie. Da allora si erano incontrati spesso, rischiando la vita sui mari infestati dalle Vele Nere dei Gr’ravyen e avevano alimentato la loro amicizia negli anni. Era stata una piacevole sorpresa per Etor incontrarlo all’assalto su Isola Madre e scoprire che anche lui era stato consacrato come “eroe” della sua gente. Arcan era un uomo scaltro e sanguigno, con una spiccata debolezza per le belle donne. Etor, al contrario, era sempre stato più riflessivo e prudente, sia in amore che in guerra. Lui amava una sola donna e non desiderava conoscerne altre.
“La gloria ci sorride, amico mio” fece presente Arcan, volgendo uno sguardo verso le valli dove ancora infuriava la battaglia. “L’esercito Gr’ravyen è in fuga”.
“La Fortezza Nera avvelena il nostro sonno da parecchi anni”. Etor squadrò l’eroe Tokrean con sguardo stremato. “Ci aspetta una prova ancora più dura”.
“I Gr’ravyen sono privi del loro esercito. Abbiamo tempo per festeggiare e per prepararci all’assedio. Sento che il dominio dei nostri antichi nemici è giunto al termine. Il presagio delle Nove Regine Bambine si è compiuto…”
“In molti piangeranno i loro cari caduti oggi, Arcan. Il tempo del cordoglio c’incatena alle sue regole. La festa dovrà aspettare”.
Arcan sputò per terra, il suo volto squadrato dalla barba incolta e biondiccia divenne fuoco.
“Per la furia delle acque! È più di un secolo che questa guerra lacera il nostro mondo. Non credi che il tempo del cordoglio sia durato già abbastanza a lungo?”
Etor non si scompose e aggrottò la fronte in quel suo atteggiamento greve e serioso che ormai lo contraddistingueva. “Io rispetto gli uomini dei Nove Regni, al pari delle madri che hanno concepito il sangue mortale che oggi diverrà cibo per i corvi… e delle mogli che non potranno gioire con i loro mariti e dei figli che non conosceranno mai i loro padri. Io piango, Arcan, perché non vi è nulla di cui gioire, nemmeno nella vittoria. Questa guerra ci ha portato a incrementare la rabbia e a cibarci dell’odio. A convivere con la sofferenza. Ci ha cambiato al punto da non ricordare più com’eravamo un tempo”.
“Io non sono cambiato” protestò Arcan, iniziando a giocherellare con Ramunk come un bambino viziato con il suo giocattolo preferito. “Ciò che tu ricordi non ti appartiene. Non puoi vivere con i ricordi dei tuoi avi. Tu, come me, non hai conosciuto che guerra e dolore, quindi non puoi sapere ciò che non hai vissuto. E se la Guerra Eterna sta davvero giungendo al termine, non dovrebbe con essa cessare anche il Tormento? Non è forse questo un valido motivo, forse l’unico vero motivo per festeggiare?”
Etor comprendeva la rabbia e la frustrazione di Arcan, perché erano le sue. E comprendeva appieno i sentimenti che l’amico cercava di esprimere, poiché erano condivisi dalla maggior parte dei Tèlleroan di tutti e nove gli arcipelaghi. Ma lui era nato con la malinconia addosso, come gli aveva sempre detto la madre; oppure, come credeva lui, non riusciva a concepire la gioia. Incarnava l’esempio perfetto del Tormento Tèlleroan. Nel privato poteva dirsi realizzato con Clelia e la sua famiglia, ma poteva dirsi davvero felice? La felicità era un’emozione che era stata bandita dai cuori Tèlleroan da troppo tempo e che lui forse non aveva mai conosciuto, almeno quel livello di felicità che Etor considerava indispensabile per vivere un vita piena: felicità era il raggiungimento più alto dell’animo umano, privato dalla sofferenza che minava quell’esistenza ideale a suo avviso forse irraggiungibile.
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