Ogni tanto mi capita di sentire una musica in sottofondo. Forse c’è sempre stata, ma ho iniziato a farci caso solo dopo un certo incontro di alcuni anni fa.
La sento nelle circostanze più impensabili: nel tragitto dalla stazione a casa, rimboccando le coperte a mia figlia, nei momenti d’intimità con mia moglie. Di solito è un motivetto accennato da una voce femminile, ma a volte sono solo strumenti: pianoforti, flauti, chitarre, violini, arpe, altri che non so riconoscere, altri ancora che credo di non aver mai udito. Se mi concentro per individuarne la fonte, magari fissando un punto sul pavimento, non sento più nulla, come se la musica volesse accompagnare la mia vita senza interferire e si facesse da parte. A volte mi sembra di scorgere qualche ombra, ma la ragazza non l’ho più rivista. Forse devo lasciar perdere e dare tempo al tempo.
Mia moglie ha ascoltato il racconto di quella sera con indulgenza, convinta di avere a che fare con la storia di un incontro improbabile misto a una fiaba. Sta di fatto che quando la musica diventa un’ossessione smetto di pensarci ripetendo fra me il suo commento:
– È un’opera in corso, abbi pazienza. Lasciale fare il suo lavoro.
Molti anni fa mi ritrovai ad accarezzare l’idea del suicidio. Credo che mia moglie veda anche quella parte della mia vita come una fiaba. Avevo toccato il fondo e poi, quasi per magia, mi sono rialzato. Io stesso faccio fatica a riconoscermi nella persona che ero. D’altro canto sono convinto che senza quell'incontro non mi troverei dove sono adesso, e liquidarlo come una fantasia sarebbe riduttivo.
Erano un po’ di giorni che girovagavo per la città alla ricerca di un’occasione. Non mi avevano rinnovato il contratto di lavoro. Avevo speso i miei ultimi spiccioli per fotocopiare il curriculum e consegnarlo a chiunque mostrasse un minimo d’interesse, ma non ero affatto fiducioso. Stavo finendo i soldi. Avevo cominciato a vendere i pochi oggetti di valore che possedevo.
Non avevo amici a cui rivolgermi.
Tornare dai miei genitori era un’idea che non prendevo in considerazione: ci eravamo detti addio in malo modo, io che una volta finita la scuola avevo colto la prima occasione per andarmene di casa, cambiare città e tagliare i ponti. Non parlavo con i miei genitori da anni e nulla mi avrebbe spinto a chiedere aiuto a loro.
Giravo in un supermercato indeciso su cosa comprare con quello che mi rimaneva nel portafoglio. Il frigo a casa era vuoto. Mi sembrava di non fare un pasto decente da giorni.
Gli scaffali ricolmi di mercanzia inutile si prendevano gioco di me: a che mi serviva un rasoio nuovo quando non potevo permettermi il pane? Avrei voluto schiaffeggiare un bambino che insisteva per un giocattolo. Invece cambiai corsia e aspettai di essere solo per ficcarmi una busta di patatine dentro il giubbotto. Vicino alla cassa presi una merendina e mi misi in fila, una mano in tasca per assicurarmi che la busta non scricchiolasse, nell'altra la merendina e le monete che mi rimanevano.
C’erano delle persone prima di me, la famiglia con il bambino e una signora anziana. Il bambino chiese alla madre: – Mamma, per fare otto ci vogliono quattro pezzi da due, vero?
La signora anziana finì di sistemare la spesa sul nastro. Presi il divisore e posai la merendina. La busta scricchiolò. La signora mi lanciò un’occhiataccia. Aveva capito tutto. Arretrai, rimisi la merendina a posto, lasciai la busta di patatine nella prima corsia vuota e uscii camminando in fretta.
La vergogna, la paura e il freddo coprivano il senso di vuoto all'altezza dello stomaco. La voce del bambino mi rimbombava in testa: Mamma, per fare otto ci vogliono quattro pezzi da due? Quella frase sembrava avere un secondo significato, un significato che sarebbe toccato a me decifrare, ma non riuscivo a venirne a capo.
Non potevo più tornare in quel supermercato. Non potevo tornare indietro. Non potevo tornare a casa. Non avevo un posto in cui andare.
Appoggiandomi al parapetto di un ponte mi lasciai cullare dallo sciacquio dell’acqua sottostante. Chiusi gli occhi e allontanai da me il rumore del traffico. Persi la cognizione del tempo. Non sentivo più nulla, né la fame né il freddo. Nell'acqua si riflettevano le luci dei lampioni. Le barche erano buie. Non mi servì guardarmi intorno per sapere che ero solo. Per la prima volta capii cosa significava la solitudine vera: non avere nessuno a cui chiedere aiuto. Non c’era più nulla che potessi fare. Mi colse un pensiero lucido che covavo da un paio di giorni e a cui non ero stato in grado di dare un nome fino a quel momento. Suicidarmi sarebbe stato così semplice.
Salii sul parapetto e mi sedetti. Mossi le gambe nel vuoto. Avrei potuto gettarmi, lasciarmi travolgere dalle onde… All'inizio magari avrei combattuto, ma poi mi sarei arreso e di me non sarebbe rimasto altro che un cadavere sulle sponde del fiume, ovunque la corrente mi avrebbe trascinato, senza più nulla di cui preoccuparmi.
Fu allora che sentii la musica per la prima volta, chiara come mai in futuro. Era un’orchestra intera di cui potevo distinguere ogni strumento, ma quando mi voltai c’era solo una ragazza che canticchiava a bocca chiusa. Stava seduta a terra con la schiena al parapetto, a pochi passi da me, sotto la luce di un lampione, e scriveva freneticamente note su un pentagramma. Aveva i capelli biondo sporco raccolti in una crocchia, diversi ciuffi le ricadevano davanti agli occhi e ogni tanto li sistemava dietro le orecchie.
Rimasi immobile a guardarla. Non potevo suicidarmi con una persona accanto, ma non era solo quello. Ero curioso.
Lei sembrava non far caso a me, almeno finché non si alzò dicendo:
— Voglio mostrarti una cosa.
Senza farmelo ripetere due volte scesi dal parapetto e la seguii.
– Cosa stai facendo? – chiesi.
– Compongo un’opera.
– Su un ponte? A quest’ora?
Sorrise. — Non puoi mai sapere quando ti prende l’ispirazione.
Si fermò davanti a un portone. Estrasse dalla tasca del cappotto un mazzo di chiavi. Ci mise un po’ a trovare quella giusta.
– Faccio sempre confusione, scusami.
Nonostante sembrasse l’ingresso di un condominio, al termine di un corridoio scarsamente illuminato la ragazza aprì un’altra porta e ci ritrovammo in un teatro come non ne ho mai visti in vita mia. I sedili parevano stendersi senza limiti in lungo e in largo. Sul palco erano disposti gli strumenti più disparati, illuminati da una luce flebile.
– Sto componendo un’opera – ripeté la ragazza mentre scendevamo i gradini.
– Quando sarà finita?
– Quello dipende da te.
Non feci in tempo a ribattere che mi prese per il braccio e mi fece salire sul palco. Si mise davanti al leggio, sistemò gli spartiti e accennò a qualche movimento da direttore d’orchestra.
– Ma mi ci vedi? – Agitò una bacchetta immaginaria in direzione dei violini. – Ci saranno i musicisti di prim'ordine per eseguire la nostra opera, e io li dirigerò, come ho visto fare mio padre...
– La nostra opera?
– Immagina! – Mi venne incontro e indicò la platea. Gli occhi le brillavano dall'entusiasmo – Il posto d’onore sarà per te, ma immagina tutte le persone che hanno rappresentato qualcosa nella tua vita, anche solo per poco, qui per la prima e ultima volta riunite insieme, solo per onorare te.
– Non capisco.
– Ho scelto te – disse la ragazza. – Tu sei la mia ispirazione. L’opera che sto componendo è per te.
– Ma io non sono nessuno. Non mi conosci nemmeno, non ti ho mai vista prima.
– Io sì. – Andò a riprendere gli spartiti e li strinse al petto. – È quello che fanno quelli come me.
Mi prese per mano e scendemmo insieme dal palco. – Scegliamo qualcuno e lo seguiamo dall'inizio alla fine.
La luce dietro di noi si spense e camminammo al buio sui gradini, guidati dallo spiraglio di luce dell’atrio.
– Pensa a tutte le persone, a quelle che non hai ancora incontrato.
Mi sentivo addosso gli sguardi delle ombre attorno a me.
– Pensa a tutto quello che potresti ancora fare.
La musica saliva con noi.
– Pensa a tutte le vite per cui significherai qualcosa.
Prima di uscire mi voltai e per un attimo vidi il teatro in tutto il suo splendore, una folla di sagome familiari e non, e un’orchestra al completo.
– Quando potrò sentirla? Quando sarà finita?
– Questo dipende da te.
Ero di nuovo seduto sul parapetto. Ero di nuovo solo. Scesi a terra e tornai a casa.
Forse è stato solo un sogno. Ho provato a cercare quel teatro, ma oltre il portone da cui mi sembrava fossimo passati non ho trovato che l’atrio di un condominio e nessuno ha saputo indicarmi un teatro nelle vicinanze. In seguito ho fatto l’unica cosa ragionevole nelle mie condizioni: non trovando un lavoro, sono tornato a casa dai miei. All'inizio non è stato facile, ma sono riuscito a rimettermi in piedi.
Mia moglie probabilmente sminuisce l’importanza di quell'incontro, ma se non fosse avvenuto non l’avrei conosciuta, non avremmo avuto una figlia e molte delle cose che mi sono capitate - molte delle vite con cui ho intrecciato la mia - non sarebbero state possibili.
Ogni tanto mi capita di sentire una musica in sottofondo. Vorrei sentirla per intero. Quando diventa un’ossessione smetto di pensarci ripetendo fra me il commento di mia moglie:
– È un’opera in corso, abbi pazienza. Lasciale fare il suo lavoro.
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