Quello del viaggio in un reame incantato nel quale il tempo scorre in modo diverso rispetto al nostro mondo è uno dei topos della letteratura fantastica. La vera sfida, in questo caso, è riuscire a narrare una storia nuova partendo da un elemento talmente noto da aver perso buona parte della sua magia. È quanto ha fatto Graham Joyce in Vita di Tara, traduzione infedele del titolo originale Some Kind of Fairy Tale.
Joyce, scrittore britannico morto lo scorso 9 settembre a soli 59 anni a causa di un linfoma, è stato quattro volte finalista al World Fantasy Award, da lui vinto nel 2003 con L’uomo dietro il vetro, e sette volte vincitore del British Fantasy Award, l’ultima proprio con Vita di Tara. Nonostante questo, e nonostante la traduzione di un altro romanzo per adulti e di uno per bambini, in Italia l’autore è rimasto praticamente sconosciuto. Ed è un peccato, perché la sua scrittura lirica e delicata meriterebbe una maggiore notorietà.
La storia inizia con i preparativi per la festa di Natale, azioni banali che si susseguono anno dopo anno. La ripetitività però viene subito spezzata dal ritorno di Tara nella casa paterna dopo un’assenza durata vent’anni. Tara, che ha ancora l’aspetto della quindicenne che era al momento della sua scomparsa, dopo qualche esitazione racconta una storia assolutamente coerente nella sua assurdità. Un litigio con l’ex fidanzato Richie, l’incontro con uno sconosciuto, la decisione di accettare il suo invito senza capire bene le conseguenze della sua azione, e il tempo che scorre in modo diverso per lei e per chi è rimasto indietro.
Elementi banali, ma la storia non si ferma qui. Questo piuttosto è il punto di partenza, perché anche se il lettore verrà a sapere qualcosa della vita di Tara durante la sua assenza da casa dalla voce stessa della protagonista o dagli appunti dello psichiatra che la prende in cura, la storia narrata da Joyce è quella del suo ritorno. Dell’impossibilità da parte dei genitori e del fratello di accettare le parole della donna/ragazza che si trovano davanti. Della vita di Richie e di come è stata influenzata dalla sua scomparsa. Della reazione della scienza, impersonata in questo caso dallo psichiatra, di fronte a qualcosa che non si può spiegare con le regole del mondo che conosciamo. Di cosa significhi dover riallacciare i rapporti con qualcuno che si credeva perso per sempre, scoprendo che la realtà è sempre diversa dalle aspettative e dai desideri. Di un increscioso incidente di cui si rende protagonista suo nipote e di cosa comporti il cercare di rimediare. Il tutto raccontato attraverso gli occhi di diversi punti di vista che sovrappongono la loro sensibilità agli avvenimenti mostrando quanto sia labile il confine fra ciò che è realmente avvenuto e ciò che noi percepiamo come avvenuto.
Il ritmo è pacato, con la storia che scorre in avanti in due tempi: quello del ritorno di Tara, con la nuova vita che devono costruirsi i personaggi, e quello della sua assenza, con ciò che hanno fatto lei e coloro che la conoscevano.
Ogni capitolo è introdotto da una breve citazione: commenti critici, proverbi, frasi di autori famosi e, unico elemento ricorrente, i documenti di un processo del 1895 intentato contro alcune persone accusate di omicidio perché, a loro dire, avevano ucciso una strega che si era sostituita a una donna reale. E queste voci in più, solidamente ancorate nella nostra realtà nel caso del processo o capaci di ricordarci quanto la nostra cultura sia imbevuta di racconti di fate negli altri, fungono da controcanto alla vicenda narrata donando al romanzo una forza maggiore.
“La natura irrealistica di queste fiabe […] dimostra che l’oggetto delle favole non è quello di fornire informazioni utili sul mondo esterno, ma di descrivere il processo interiore che avviene nell’individuo” ha affermato Bruno Bettelheim, e Joyce lo ha ribadito con una storia che parla di legami familiari e di perdita, crescita e cambiamento, dolore e necessità di rapportarsi con il mondo, e che ci ricorda che prima o poi arriva per tutti il momento di scegliere quale strada seguire.
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