Prologo

Rinchiusa nella sua cella dalle pareti di pietra senza tempo, il corpo nudo teso a mezz’aria da catene strette ai polsi e alle caviglie, Loenia aspettava.

Quanti anni erano trascorsi da quando l’avevano catturata e trascinata in quell’inferno? Aveva perso il conto. Era stata la forza di volontà, più che lo squallido cibo che le portavano, a tenerla in vita. La mente concentrata, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sulla fuga, sulla vendetta, sul riscatto dal dolore patito e dalle umiliazioni subite.

La fede incrollabile nella propria natura sovrumana le forniva un flusso incessante di energia. Loro la consideravano un mostro e una minaccia. Ma non l’avevano uccisa.

All’inizio se n’era chiesta il motivo, cercando una spiegazione nei suoi ricordi confusi, ma non era servito a nulla e tutto si era annebbiato nel trascorrere degli anni, fino a svanire. Lei e i suoi fratelli, esseri generati dalle manipolazioni degli oscuri cenobiti Jikima, avevano servito fedelmente i loro creatori, fino al giorno in cui si erano ritrovati braccati come bestie selvagge. La loro difesa, seppur tenace, non era servita contro un nemico che li sopravanzava in numero di cento a uno. Nessuno dei suoi fratelli, che lei ricordasse, era sopravvissuto. Ma quando anche Loenia si era ritrovata con le spalle alla roccia presso il passo montano di Golkana, ormai stremata e con il fiato della morte sul collo, la sorte era mutata di colpo. I dardi che l’avevano raggiunta non erano stati tirati per uccidere, ma per avvelenare e gettarla in un sonno durato il tempo necessario a trasferirla in quella cella di oscurità e silenzio. La sua tomba in vita.

Loenia reclinò la testa e abbandonò le braccia al peso del corpo. Represse la familiare ondata di dolore alle spalle e alla spina dorsale a causa delle catene che le tendevano gli arti e dischiuse gli occhi, acuendo lo sguardo nel buio impenetrabile.

Il suo aspetto era quello di una ninfa dalla pelle d’avorio. Il corpo esile e flessuoso aveva la grazia di una danzatrice e i capelli lisci e lunghissimi come fili di seta amaranto le accarezzavano le spalle e la schiena. Le labbra carnose chiedevano solo di essere morse, ma gli occhi color del sole infuocato al tramonto, stretti a fessura, emanavano una tale forza d’animo che nessuno aveva mai osato avvicinarsi più di quanto lei non volesse concedere. No. Non era una ninfa. In realtà nessuno, sano di mente, avrebbe voluto sapere cosa Loenia fosse veramente.

C’era una zona di sicurezza tra lei e la porta blindata di cristallo nero della cella. Un solco a forma di cerchio inciso nella pietra del pavimento che imponeva di non essere superato. Anche se fosse riuscita a liberarsi dalla morsa delle catene, Loenia non avrebbe potuto oltrepassare quel confine. Era pervaso di una magia antica come il mondo, ideato da un alchimista, tracciato da un Tecnocrate e animato da un mago che gli aveva dato vita con arcane formule di contenimento, plasmandolo in un invisibile cilindro gelido come il cuore stesso della montagna. Un lavoro perfetto.

Dopo sforzi immani, Loenia era però riuscita a coglierne la struttura magica. La sua mente aveva estratto, fino alla percezione visiva, spire perlacee che si innalzavano intorno al cerchio danzando nell’aria come i tentacoli di una medusa. Dentro il solco ristagnava un tipo di Fluido Jikima a lei ignoto, avvelenato dai miasmi emanati dal mondo degli Abominii. Liberarsi dalle catene sarebbe stato uno scherzo, ma con la conseguenza di cadere all’interno del cerchio, dove il contenimento magico avrebbe annientato il suo corpo in un istante, accartocciandolo e riducendolo alla grandezza di un granello di polvere.

Dopo ulteriori sforzi, Loenia era riuscita a percepire la natura dell’invisibile cilindro di contenimento. La sua mente ne aveva formulato, dapprima, una scala di potenza, poi aveva isolato infinitesimali vuoti di funzionamento e si era impressa nella memoria un reticolo preciso di pulsazioni e stasi delle spire di riflusso, trovandovi infine un punto debole.

C’erano voluti un tempo e uno sforzo iniqui per quell’analisi, ma si trattava della sua fuga. Un lavoro perfetto? No, dopotutto.

Una volta al giorno la porta della cella si apriva, giù in basso, lasciando filtrare una lama di luce, e poi l’ombra di un uomo in armatura attraversava quel crepuscolo fino al limitare del cerchio di contenimento. Con misurata perizia, senza tradire alcuna emozione né emettere fiato, battito di ciglia o respiro, l’uomo incaricato di nutrire Loenia posava il cibo all’interno di un vano nella pietra del pavimento, si voltava e usciva. La porta si richiudeva dietro di lui emettendo un sospiro.

Il cibo era energia allo stato liquido, una poltiglia che fluiva direttamente dal vano nella pietra alla bocca di Loenia.

La odiavano al punto di inibirle qualsiasi interazione con il mondo.

La stessa apparizione dell’uomo che la accudiva era parte della condanna. Una volta al giorno. Una lama di luce. Una presenza. Il cibo. Tutto per impedirle di credere di essere morta. Per costringere la sua mente ad attendere l’evento della nutrizione come la quotidiana ancora di salvezza dalla follia. Per ricordarle di essere ancora parte di un mondo che la teneva in suo potere, in attesa di farne qualcosa.

Il nono giorno della quinta luna dell’anno 814 dell’era erondariana, la porta della cella di Loenia si aprì. L’uomo incaricato di nutrirla attraversò la lama di luce fino al limitare del cerchio. Con misurata perizia, senza tradire alcuna emozione né emettere fiato, battito di ciglia o respiro, l’uomo posò il cibo all’interno del vano nella pietra del pavimento, ma prima di girarsi per uscire esitò. Un istante infinitesimale, ma esitò. Non si voltò per andarsene. Sollevò invece lo sguardo in alto, come mai aveva fatto. Era stato addestrato per resistere a quella tentazione. Eppure sollevò lo sguardo fino a incontrare quello di Loenia, e quando comprese la conseguenza di quell’atto era troppo tardi. Tardi per lui. Tardi per coloro che attendevano fuori dalla porta. Tardi per coloro che sorvegliavano quella prigione e vivevano nella fortezza in cui la prigione era sepolta. Perché da tempo alla mente di Loenia era giunto un richiamo, come un sussurro familiare. La voce di un Reietto, un suo simile, che condivideva la sua stessa sorte in un luogo remoto ancora peggiore di quella cella. E quel richiamo le aveva dato la forza necessaria a completare il suo piano di fuga.

Colui che la chiamava stava cercando di fare altrettanto.

Si stava liberando dalle proprie catene e aveva bisogno di lei.