Kappalab ha presentato nel suo stand a Lucca Games 2014 i due volumi che raccolgono la storia di Big Robot, il primo robottone made in Italy pubblicato tra il 1980 e il 1981 dalle Edizioni Bianconi. Nell’editoria odierna un progetto di questo tipo farebbe sorridere ma, allora, ci ha spiegato Andrea Baricordi (uno dei quattro Kappa boys) molti bambini folgorati dall’avvento dei cartoni animati giapponesi in tv, rimasero affascinati dal nuovo genere, smaniando per avere più storie possibili. Per questo Bianconi, già da diverso tempo in crisi di vendite, appoggiò il progetto di Alberico Motta, ovvero portare in edicola un robot che proponesse storie simili a quelle giapponesi. Molte, infatti, sono le analogie tra Big Robot e mecha ben più famosi come Mazinga e Jeeg Robot: l’ambientazione, la Terra devastata dalla guerra, l’arrivo dei terribili alieni contro i quali l’unica speranza di salvezza è un robottone gigante, la caratterizzazione stereotipata dei personaggi. Il protagonista, un giovane e aitante pilota con tanto di moto, corrisponde al cliché del genere, così come la presenza dello scienziato che vive nella roccaforte dov’è custodito il robot, e la presenza di un certo numero di bambini, amici del protagonista. Eppure i fan, ancora numerosi, del fumetto trovano in Big dei tratti originali rispetto ai cugini giapponesi. Una crudezza prima di tutto nel racconto, legata all’ingenuità del periodo che rende Big Robot un prodotto al di fuori delle logiche del “politicamente corretto” e che per questo, a 35 anni di distanza, richiama un pubblico che rimpiange quell’epoca pioneristica. Tanto per fare un esempio sulla libertà narrativa del tempo, Fuher, lo scagnozzo del malvagio Orkus, è coperto da capo a piedi da maschera e mantello, questo perché quando i suoi tentativi di conquistare la Terra non vanno a buon fine, viene torturato e mutilato orrendamente!
Forse questo rinnovato affetto verso Big Robot, (oltre alla pubblicazione di Kappalab gli è stato dedicato un modellino e persino una birra), non è dovuto semplicemente a un modaiolo gusto per il vintage, quanto piuttosto all’autentica nostalgia per un’epoca in cui l’avventura non doveva fare i conti con troppe regole strette. Così Motta racconta il suo eroe: «Proprio questo era Big: un gigantesco cavallo da battaglia creato per difenderci dall’aggressione, fasciato ed impenetrabile nella sua semplicità, a differenza dei moderni Transformers che, esibendo tutti i loro complicati meccanismi, possono risultare estremamente vulnerabili. I grandi robot erano privi di velleità esibizionistiche, ma erano tosti e rassicuranti.»
Certo, oggi, per potersi godere il racconto, bisogna superare l’ingenuità del tratto che mixa Braccio di Ferro a un manga. Lo stesso Motta spiega, nelle belle postfazioni alla fine dei due volumi, i tempi strettissimi con i quali era costretto a lavorare e il sistema del riciclo di disegni, esattamente come accadeva negli anime, per accorciare i tempi. Vi era una catalogazione di quelli migliori che venivano riutilizzati più volte in una storia, riproponendoli specularmente o con dimensioni differenti, per ingannare il lettore.
Purtroppo, nonostante i costi contenuti, la serie chiuse dopo dodici numeri. Eppure, visto l’entusiasmo di molti bambini di allora cresciuti con nel cuore Big Robot, Alberico Motta promette: «Al prossimo libro vorrei invitarvi a volare tra i pianeti di Sunbeam, a vivere emozionanti e inaspettate avventure insieme ad Antares e i due compagni robot. Una gita tra amici insomma!»
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