Riggan Thomson era un attore di successo nei primi anni '90, quando, antesignano dei moderni supereroi cinematografici, impersonava Birdman.
Ora però Riggan è un quasi sessantenne in cerca di conferme. Vuole essere considerato un attore vero e non una celebrità. Il Teatro, quello con T maiuscola gli sembra il mezzo più efficace per riscattarsi. Il progetto è ambizioso, mettere in scena un testo la cui drammaturgia è considerata impossibile, un racconto di Raymond Carver: Di cosa parliamo quando parliamo d'amore.
Ovviamente nei giorni che precedono il debutto sono tantissimi gli ostacoli che si frappongono tra Riggan e il suo sogno. Incidenti, conflitti con il primo attore Mike, con le donne della sua vita, a cominciare dalla figlia Samantha. Tutto sembra remare contro.
Ma Riggan non è solo. Se l'amico di sempre Jake sembra essere l'unica persona assennata, capace di dargli il giusto consiglio, c'è una voce interiore che vuole stimolarlo a volare alto, a osare l'inosabile, quella voce è proprio quella dell'alter ego che invece vorrebbe seppellire, dimenticare.
Per allestire con Birdman un dramma, con toni da farsa e da commedia nera, Alejandro González Iñárritu si basa su vari pilastri.
Il teatro e il meta teatro in primo ordine, con i dialoghi e i conflitti dei personaggi teatrali che sono la continuazione dei dialoghi e dei conflitti dei personaggi del film. Lo scambio e il travaso tra i due mondi è continuo, la confusione tra personaggi del film e personaggi interpretati dai personaggi voluta. E per rappresentare degnamente il teatro, per farci vivere dentro il palcoscenico, tra i camerini, ma anche nei luoghi dell'azione cinematografica, la soluzione è non dare soluzione apparente alla continuità, adottando per ogni scena la tecnica del piano sequenza.
Attenzione, il film non è un unico piano sequenza, la vicenda non segue il dettame della triplice unità di tempo, azione e luogo. Bensì ogni scena è concepita come un piano sequenza, anche i raccordi tra le scene, pur facendo avanzare temporalmente la vicenda, danno l'illusione della mancanza di uno stacco di montaggio (se non in un breve voluto momento verso la parte finale).
Tanti movimenti di macchina, non traballante camera a mano documentaristica, ma rigorosa steadycam del cinema, del vero cinema. La macchina gira per la scena, segue gli attori, si sposta da un personaggio all'altro nei dialoghi, allarga i suoi orizzonti alla città di New York, co-protagonista del film.
Cinema di finzione, non cinema verità. A differenza della spontanea fotografia dei film di Cassavetes, che non seguiva l'azione, con effetti estranianti, la tecnica fotografica di Emmanuel Lubezki è studiata, meticolosa in ogni passaggio, rigorosa quanto la regia. Niente è lasciato al caso.
Iñárritu insomma, in un film che all'apparenza sembra mettere alla berlina lo star system, sia cinematografico che teatrale (vedasi la sotto-trama della potente critica teatrale del New York Times), è in realtà la celebrazione del cinema di Hollywood, perché l'apparente destrutturazione del linguaggio di quel cinema avviene con la perfetta padronanza e con l'uso di quello stesso linguaggio. Anche la scena che dovrebbe stigmatizzare il mondo dei blockbuster tutti azione e testosterone ed effetti speciali ne è, in un certo senso, esaltazione, se si pensa che la profondità di campo ci consente di osservare un sottile inside joke, un manifesto sullo sfondo di uno dei più recenti esempi di questo cinema. A voi il compito di trovarlo. Se no, non sarebbe un gioco...
L'altro pilastro sul quale il film si basa sono gli attori. Impossibile prescindere da loro quando si parla di teatro. Le prestazioni che Iñárritu ha chiesto loro sono prettamente teatrali, sia pure con la misura del gesto e della voce del cinema. Le difficoltà maggiori sono state forse per quegli attori che nella stessa sequenza si sono trovati a passare da dietro le quinte al palcoscenico e viceversa. Ma anche chi non è stato in scena ha dovuto comunque gestire un ritmo di recitazione diverso dalla frammentazione cinematografica.
Esempi di questa differenza sono sicuramente Michael Keaton, semplicemente perfetto nelle sue oscillazioni tra teatro, vita reale, mondi reali o immaginari, al pari di Edward Norton, nei panni di un attore la cui ossessione per il “metodo” lo rende più vero sulla scena di quanto non lo sia nella vita reale. Anche Naomi Watts, anche lei attrice in cerca di riscatto, dell'occasione della vita sia professionale che umana e sentimentale, rende ottimamente questi passaggi.
Sul secondo fronte Zach Galifianakis ed Emma Stone, i cui personaggi non sono attori, sono i migliori esempi nel cast di uno stile recitativo che ha dovuto mescolare la misurazione del gesto tipica del cinema, al respiro della lunga scena teatrale.
Va detto, a onore del vero, che questa osservazione l'ho compiuta sui soli gesti, sulle posturalità e sulla mimica degli attori, perché il film l'ho visto doppiato.
Senza nulla togliere al doppiaggio, ritengo che in questo caso la possibilità di vederlo in originale sarebbe auspicabile. D'altra parte molto spesso a teatro compagnie straniere recitano nella loro lingua, con sottotitoli proiettati sopra o sotto il palcoscenico.
Una battuta buttata lì, quasi casuale, condensa probabilmente quanto possa essere la storia di Birdman, una sorta di “what if” sulla carriera di Keaton. Quando Sam rinfaccia al padre di aver accettato “quel maledetto terzo film di Birdman”. Keaton, lo sappiamo, ha interpretato solo due film di Batman, uscendo fuori dal franchise prima che franasse, probabilmente è riuscito a salvarsi proprio perché ne è uscito al momento giusto, però ancora oggi è ricordato per quel ruolo.
Per questo motivo, oltre che per le sue innegabili capacità, è impossibile pensare a un volto diverso per Riggan Thomson da quello di Michael Keaton.
Birdman è un buon film. Ruffiano forse, meno “indipendente” di quanto non si creda, ma questo non è un limite.
Un limite forse ce l'ha in una sceneggiatura che, seppur molto attenta nei dialoghi e nel senso del ritmo, lancia alcuni stimoli, alcuni elementi, senza veramente svilupparli, e senza che sembrano avere reali utilità nella trama. Nello specifico mi riferisco a un momento di intensa interazione tra due personaggi femminili, che però alla fine non porta ad alcuna evoluzione dei personaggi e nessun contributo al quadro generale.
Una riflessione lanciata tra le altre, anch'essa sviluppata meno di quanto meritasse, è quella sul ruolo dei nuovi media nel concetto di celebrità, e sulla differenza tra il vero successo e la semplice notorietà, magari ottenuta proprio malgrado, non voluta, ma dovuta al proliferare di occhi elettronici che, dai cellulari, osservano e mandano su internet tutto e il contrario di tutto. Apprezzabile il tentativo.
In conclusione siamo davanti a un film che punta a stimolare l'attenzione, suscitare emozioni e qualche riflessione, oltre che narrare una storia.
Da vedere perché prima di ogni altra cosa, è ben diretto e ben recitato.
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