Il Mondo Circolare di Joe Abercrombie non è solo grandi battaglie, eserciti schierati, vertici di potere e intrighi internazionali ma anche uomini e donne del popolo, che tirano avanti lavorando e sudando, nella speranza di non venire travolti da eventi più grandi di loro. E magari cercando di dimenticare le brutture del passato.
Shy è una di queste persone. Vive in una piccola fattoria nelle Terre Attigue, zona povera e di frontiera, assieme ai fratellini Pit e Ro e al patrigno Agnello. Un giorno, la tragedia: al ritorno da un approvvigionamento in città, l’uomo e la ragazza trovano la casa bruciata e i bambini scomparsi. A questo punto una sola cosa importa: ritrovarli a qualsiasi prezzo e fare vendetta, inseguendo i rapitori nelle Terre Lontane, selvagge, infestate da bande di predoni e di ciò che resta degli antichi nativi della zona.
Durante il viaggio però il passato riaffiora per tutti, nel bene e nel male.
Red Country è il terzo romanzo stand alone di Joe Abercrombie, dopo The Heroes e Il sapore della vendetta: le vicende narrate si svolgono circa dieci anni dopo quelle di quest’ultimo ma lo scenario è decisamente diverso. Spariti i campi di battaglia dell’Unione o delle Terre del Nord, le armate dei Gurkish, le città stiriane dal sapore Rinascimentale: è sufficiente la dedica dell’autore a Clint Eastwood per capire quale genere di storia ci attende.
La contaminazione tra Fantasy e Western non è nuova, basti pensare alla saga della Torre Nera di Stephen King, ma Abercrombie riesce a fare qualcosa di diverso e spiazzante: realizza un western vero e proprio, non certo alla John Wayne, ma piuttosto in stile Gli Spietati, nel cinema, e Meridiano di sangue di Cormarc McCarthy. Ovvero violenza e sangue.
Abercrombie insinua qualche tratto delle ambientazioni precedenti (i resti del Vecchio Impero nella città mineraria di Cresa, assedi e duelli con spade e pugnali al posto delle pistole) per ricordarci dove siamo. Però il suo mondo alternativo pseudo rinascimentale si sta evolvendo: compaiono i primi utilizzi della polvere da sparo e le potenzialità del vapore, il tutto fra praterie sconfinate e senza legge, corsa all'oro, carovane in fuga e grandi mandrie, fatiscenti città con saloon e piccoli crudeli boss locali.
Non mancano riferimenti agli altri romanzi attraverso la (ri) comparsa di alcune figure più o meno collaterali che ben conosciamo: Nicomo Cosca, invecchiato e ridotto a una caricatura grottesca di se stesso ma ancora a capo di un’armata di mercenari, con biografo al seguito; Caul il Brivido, con il suo vecchio conto da saldare; Friendly, qui tradotto con Cordiale (neanche fosse un grappino) ancora ossessionato dai numeri; l’Inquisitore Lorsen e il Superiore Pike, un tempo carceriere e carcerato nella stessa prigione; il sindaco di Cresa, ovvero Carlot dan Eider, ex capo della Gilda degli Speziali, che ha seguito il consiglio di “sparire”.
L’elemento magico è assente ma non il cinismo e lo humor nero che contraddistinguono lo scrittore inglese, questa volta spostato sui rapporti interpersonali. In Red Country non sono tanto gli eventi a fare la trama, quanto i protagonisti con i loro dubbi, convinzioni, scelte, evoluzioni. E la loro capacità di uccidere e vedere uccidere.
Come sempre Abercrombie rovescia i ruoli tradizionali: la protagonista Shy è una specie di Etta Place ravveduta - ma non prima di aver fatto fuori i suoi personali Butch Cassidy e Sundance Kid. La controparte maschile, Tempio, è un vigliacco dai mille mestieri, debole e insicuro. Quanto al terzo personaggio principale, tutti i lettori di Abercrombie sanno già chi sia prima di iniziare il romanzo. Nonostante questo, la trasformazione del mite e codardo Agnello in ciò che per anni aveva sepolto in fede a una promessa è una visita attesa ma piena di suspense, una diversa interpretazione della frase “Guardatevi dall'ira dei calmi”.
“Un uomo deve essere quello che è”, decide il grosso uomo del Nord con nove dita. E la terra diventa rossa.
Red Country ha ritmo veloce e ben calibrato, tranne forse sul finale, un po’ troppo brusco. Quello che sconcerta è la traduzione di certi nomi: Temple che diventa Tempio, l’esploratore Sweet Dab tradotto in Dab Miele, Papa Ring in Papà Anello. Persino la città di Crease nella versione italiana è Cresa (e questo sarebbe il male minore), quella di Squaredeal è Buon Commercio… Ma si tratta di un difetto marginale rispetto a ciò che mostra il romanzo: la ferocia e l’istinto di prevaricazione insiti nella natura umana, i conflitti morali di chi deve fare i conti con la sopravvivenza e, per la prima volta nei romanzi di Abercrombie, figure non del tutto negative che si meritano se non il classico happy end, almeno la possibilità di ricominciare.
Che poi tutti la ottengano è un altro paio di maniche, ma forse l’autore comincia ad ammettere almeno la parvenza di umanità nei suoi personaggi. Non a caso, verso la fine del romanzo, il vecchio attore ormai finito, Iosiv Lestek, afferma:
“Da giovane trovavo noiosi i lieto fine ma, dammi pure del rammollito, invecchiando ho cominciato ad apprezzarli sempre di più”.
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