Come tutti i lontani e bizzarri zii e antenati dimenticati che si rispettino, anche il nostro Lord Dunsany ha lasciato una considerevole eredità: non mi riferisco al castello di Dunsany in Irlanda o alla residenza inglese di Dunstall, ma al suo vasto e variegato patrimonio letterario, che dalla prima opera del 1905 si estende fino agli anni cinquanta del Novecento (la sua ultima pubblicazione, tre anni prima della morte, è del 1954) e comprende prosa, poesia e teatro, racconti e romanzi sia fantastici che più tradizionalmente realistici, giornalismo e resoconti di guerra. In tutto questo tesoro, hanno per noi un valore particolare le sue opere fantastiche. Quattro sono i suoi romanzi tipicamente fantasy: The Chronicles of Rodriguez (1922), The King of Elfland’s Daughter (1924), The Charwoman’s Shadow (1926) e The Blessing of Pan (1927). Sono tutte storie a cavallo tra il nostro mondo e quello fantastico: i cavalieri spiantati della Spagna del Secolo d’Oro e i tranquilli villaggi delle campagne inglesi devono improvvisamente fare i conti con il manifestarsi della magia e di poteri sconosciuti. La maestria di Lord Dunsany però si rivela in un’altra forma letteraria da lui padroneggiata: quella del racconto breve. Tra il 1905 e il 1919 egli pubblica otto raccolte di racconti, tra cui Time and the Gods (1906), seguito di The Gods of Pegāna, The Sword of Welleran (1908), A Dreamer’s Tales (1910) e The Book of Wonder (1912). In queste brevi storie è raccolto in nuce molto del futuro fantasy: The Sword of Welleran o The Fortress Unvanquishable, Save for Sacnoth (entrambi i racconti sono contenuti in The Sword of Welleran, 1908) raccontano in maniera originale le azioni eroiche di guerrieri solitari, diventate poi il tema della sword-and-sorcery. Le botteghe polverose nelle strade londinesi dove si vendono strani idoli magici e in cui si nascondono porte su altri mondi, come quelle descritte in A Shop in Go-by Street (Tales of Three Hemispheres, 1919) o in The Injudicious Prayers of Pombo the Idolater (The Book of Wonder, 1912), anticipano i portali negli armadi di C.S. Lewis e l’invisibile Diagon Alley di J.K. Rowling. Ci sono terrori oscuri e destini indicibili, soltanto accennati da frasi suggestive e terribili; ci sono teogonie maestose e profezie cosmiche sconvolgenti, che atterriscono il lettore e al contempo dischiudono una realtà magnifica e smisurata, degna del Sublime romantico più suggestivo. Ci sono città e regni lontani, pieni di magia, meraviglie e leggende. Si possono raggiungere talvolta nei sogni, talvolta vagabondando per le terre e i mari del nostro mondo. Ma quei luoghi remoti possono anche prendere vita e forma solo tramite il potere della parola, nei racconti che Lord Dunsany ci narra come un antico cantastorie, col tono cordiale e un po’ ironico del nobile britannico, del viaggiatore e avventuriero, del poeta dall’animo curioso e sensibile.
Del resto anche nella vita Dunsany riusciva a dare di sé un’immagine da personaggio fantastico. Esploratore dei mondi invisibili, visse però intensamente nella sua realtà. Oltre alla guerra boera, partecipò come Tolkien al primo conflitto mondiale e, ormai sessantenne, si offrì come ausiliario nel secondo. Il breve periodo trascorso nelle trincee francesi ispirò alcune delle sue pagine più tristi, ma dal silenzio e dal dolore di un’epoca distrutta e di amici perduti, seppe innalzare un nuovo vessillo di idealismo e speranza nel suo primo romanzo fantasy, The Chronicles of Rodriguez. Incontrò sultani e maharaja indiani e fece la conoscenza di re Farouk d’Egitto e re Giorgio II di Grecia durante un lungo e pericoloso viaggio, in compagnia della coraggiosa e paziente moglie Beatrice, per raggiungere Atene. La coppia fu costretta a un altro periplo per abbandonare la capitale greca, dove Dunsany aveva ricevuto una cattedra di letteratura inglese, allorché il paese venne attaccato dalla Germania nazista. Nel primo e nel secondo dopoguerra il barone tenne una serie di conferenze negli Stati Uniti, occasione per un H.P. Lovecraft quasi trentenne di scoprire una delle sue principali figure letterarie di riferimento (a cui si ispirò più per l’immaginifico che per l’orrore).
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