La grande lezione di Lord Dunsany sul fantasy e la fantasia viene dai suoi caratteristici racconti del primo ventennio del Novecento. Spesso apparsi singolarmente su riviste e periodici quali Irish Review o Saturday Review prima di essere riuniti in raccolte, erano accompagnati dalle illustrazioni visionarie di un altro talento dimenticato del fantastico, Sidney Herbert Sime. Illustratore di fiducia del barone, seppe cogliere le sfumature più oscure e i dettagli più visionari delle opere dunsaniane. La sintonia era tale che i due amici sperimentarono anche un processo creativo inverso: quasi tutti i racconti di The Book of Wonder vennero scritti da Dunsany a partire da illustrazioni che Sime aveva preparato precedentemente, senza che l’artista fornisse alcuna indicazione sul loro significato (Il libro delle meraviglie, Trento, Reverdito, 1989, tradotto da Claudio De Nardi, riproduce molte delle tavole originali di Sime).
Un primo spunto di riflessione che questi gioielli di narrativa fantasy offrono è la loro appartenenza alla tipologia del racconto breve. La cosa non è per nulla indifferente, soprattutto per dei lettori di fantasy contemporaneo, abituati a lunghe, voluminose serie di romanzi che seguono e approfondiscono le vicende degli stessi eroi o nelle stesse ambientazioni. Lord Dunsany dimostra che l’epopea non è necessariamente l’unica forma per un fantasy valido: certo, da un lato c’è l’esempio storico dei poemi eroici e mitici, ma dall’altro abbiamo le favole e una lunghissima tradizione orale che, anche per ovvie ragioni di tempi, concentrava la narrazione fantastica in forma episodica (gli stessi cantori epici non si limitavano forse a episodi nelle loro performance?). È a questi modelli che si rifà principalmente il barone: raramente le sue storie hanno un seguito o condividono il medesimo fondale fantastico. Dunsany preferisce creare una serie di rimandi, una rete a maglie molto larghe, disseminando i suoi racconti di dettagli evocativi, riferimenti a città misteriose, divinità dimenticate ed eroi di un passato sconosciuto. Molti di questi dettagli non vengono mai chiariti, ma sono semplicemente affidati all’immaginazione del lettore; essi però contribuiscono al senso di “Credenza Secondaria”, per usare un termine di Tolkien, ovvero partecipano alla creazione di un universo che è credibile perché dà l’idea di essere dotato di una sua storia e geografia, nonché dei suoi miti. È questo che accade quando Dunsany parla degli dei di Pegāna, la cui fede è diffusa nelle isole del “mare centrale”. Egli non ci dice dove si trovi questo mare, ma con il semplice uso del registro linguistico, biblico e solenne, ci affascina convincendoci che quella che stiamo leggendo è davvero la teogonia di terre sconosciute.
Il fantasy di Dunsany è un minuzioso lavoro di oreficeria: con la sua notevole padronanza linguistica il barone concentra interi universi in poche frasi, come nelle sfumature cromatiche di una pietra preziosa. Se questo effetto pregevole risalta nei racconti, non è però facilmente replicabile in opere di dimensioni maggiori, dove rischia di stemperarsi.
Anche per quanto riguarda le ambientazioni Dunsany propone suggestioni interessanti. Se guardiamo ancora una volta al modello tolkieniano e alle opere da esso ispirate, lo scenario tipico è quello medievale nordeuropeo. Le antichità germaniche e celtiche formano molto spesso il sostrato delle tradizionali storie fantasy. Lo sguardo del barone invece è rivolto molto più a sud e a est: lo stesso linguaggio e l’immaginario veterotestamentari spingono il lettore tra gli scenari del Levante. Non poche città fantastiche sorgono in mezzo a deserti attraversati da carovane, i re sono sultani e faraoni, gli eroi brandiscono le spade ricurve dell’oriente. Talvolta si parla delle distese dell’Arabia e dell’Africa o di Baghdad, tal’altra è un oriente ancora più remoto a essere evocato: l’India, la Cina, le isole del Pacifico; addirittura sembra che gli dei di Pegāna siano stati ispirati da un’opera teatrale ambientata in Giappone. Del resto, a cavallo tra i due secoli il gusto orientalista era assai diffuso nella letteratura e nell’arte occidentale. Non va dimenticato poi che la corona britannica era a capo di uno dei più vasti imperi coloniali della storia, con possedimenti sparsi per tutti i continenti e contatti con la maggior parte dei summenzionati luoghi esotici. Se anche questo tipo di ambientazione può risultare insolito per il nostro pubblico, all’epoca lo era probabilmente di meno. Eppure l’oriente di Dunsany è uno spazio più mentale che geografico; è la frontiera non raggiunta, non ancora colonizzata, il luogo della bellezza intatta, esplorata solo dai sognatori. Non è un caso che quando il barone scrisse le sue storie fantasy egli non avesse ancora compiuto gran parte dei sui viaggi per il mondo. Eccetto Gibilterra e il Sudafrica, ben poche erano state le sue peregrinazioni avventurose prima della Grande Guerra. Addirittura il racconto Idle Days on the Yann (A Dreamer’s Tales, 1910), che narra del meraviglioso viaggio in barca lungo un fiume dei sogni, fu scritto prima di una crociera sul Nilo! I vagabondaggi nell’immaginazione diventavano il mezzo per raggiungere i luoghi del desiderio. Questo spiega anche la presenza di un altro filone presente nell’immaginario dunsaniano: la mitologia classica. Per sua stessa ammissione il giovane Edward Plunkett, educato a Cheam e Eton, aveva conosciuto le lingue e i miti della grecità e della latinità in maniera solo parziale e le sue prime creazioni erano state in un certo senso un modo per compensare questa mancanza. La lingua di Omero, quasi dimenticata, sembra riecheggiare nei nomi del fiume Segastrion e dell’oceano noto come Oriathon, ed è per una strana nostalgia, quasi un sentimento struggente di perdita, che sorgono le statue di marmo di Merimna e le guglie di Sardathrion, città sognata dagli dei.
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