Il tuo primo romanzo, Iskìda della Terra di Nurak, è stato pubblicato nel 2013 da Edizioni Condaghes. Raccontaci qualcosa in merito.
Iskìda è una trilogia fantasy per giovani-adulti ambientata nella Terra di Nurak, un secondary-world liberamente ispirato all’immaginario fantastico tradizionale della mia isola, la Sardegna, in un tempo che si potrebbe inquadrare a metà tra il tardo Neolitico e l’Età del Bronzo Antico. Se il setting è originale, il genere rimane un fantasy tutto sommato “classico”, epico, ma con una forte componente onirica che gioca qualche scherzo alla trama e al lettore. La saga è completamente illustrata, con tavole in stile manga realizzate da coloro che sono state le mie coraggiose compagne di viaggio: Daniela Serri e Daniela Orrù, di Dany&Dany Comic Creators Studio. In bilico tra mito e realtà, coerenza archeologica e fantasia, Nurak è un luogo dove un anno trascorre in trentadue mesi lunari, dove stregoni studiano gli astri e padroneggiano la magia degli elementi e dove misteriosi colossali animali, i Nèfili, solcano la terra al fianco dei Giganti. Una terra selvaggia di guerra e magia, dove una ragazzina temeraria e il suo inseparabile amico a quattro zampe si troveranno a lottare per la propria sopravvivenza.
Quali sono le basi della tua formazione letteraria? C’è un autore in particolare che ritieni abbia maggiormente influenzato la tua ispirazione-produzione?
Ricordo notti d’estate a divorare romanzi storici d’avventura firmati da quel grande narratore che è Wilbur Smith. Poi, come per molti, venne J.R.R. Tolkien. Nei primi anni d’università seguirono il maestro di Providence, i deliri sinaptici del Cyberpunk e La Torre Nera di Stephen King. Insomma, direi un curriculum abbastanza standard. Tra i contemporanei del genere, gli autori che più apprezzo sono di sicuro Scott Lynch (Liar? BASTARD!) e Brandon Sanderson. Senza bisogno di menzionare Abercrombie. Coloro a cui però rimango più affezionato sono Ursula Le Guin e Philip Pullman, per la grazia con cui hanno imbastito i loro universi: Pullman in particolare, anche perché a Oxford – dove, dopo una laurea in storia, ho effettuato i miei studi di editoria – ho avuto la fortuna di lavorare per un breve periodo come assistant editor alla David Fickling Books, l’editore che scovò e lanciò Queste oscure materie. Sono esperienze che ti restano dentro.
Prima di arrivare ai romanzi hai lavorato a diari di viaggio sulla Sardegna e l’Estonia, un binomio piuttosto inedito, almeno apparentemente. Cosa ti ha colpito in particolare e cosa ti porti dietro di quell’esperienza lavorativa?
Sì, mentre terminavo la laurea triennale vagabondo per l’Europa (fuoricorso e con i libri in saccoccia) ho collaborato per diversi anni come reporter di viaggio per un mensile in Sardegna. Da quegli articoli e dalla trascrizione di un blog che tenni durante uno scambio universitario a Tartu, in Estonia, nacque il mio primo libro. Fu la prima possibilità di pubblicare qualcosa di compiuto, da un punto di vista sia artistico che editoriale però non è di sicuro l’opera che più consiglierei a un mio lettore. La fiction, specialmente fantastica, è sempre stata il mio genere. Certo, viaggiare è stato fondante. Quale che sia lo stile e il genere con cui si vogliono plasmare le proprie storie, bisogna avere qualcosa da dire. E per avere qualcosa da dire bisogna vivere, e conoscere.
Quando e, se c’è un perché, perché ti sei approcciato al genere fantastico? Cosa ti appassiona di questo genere?
Quando? Da sempre. Perché? Viviamo in una sola realtà percepibile, e per comprenderla ci serviamo dei simboli, delle narrazioni, dei miti. Spesso parlare delle cose per quelle che sono però non aiuta a comprenderle, semmai a ossessionarsi e smarrircisi dentro. Parafrasando la Le Guin nel suo discorso al National Book Award del 2014, per parlare della realtà c’è bisogno di visionari, di “realisti di realtà più grandi”. Soltanto la fantasia può donarci questo etero-riconoscimento su noi stessi, e la cosa straordinaria è che lo strumento che utilizza per fare ciò, a differenza di letterature che pretendono di essere “impegnate”, è il più leggero, meraviglioso e incisivo: l’intrattenimento.
Con Iskìda della Terra di Nurak sono iniziati i riconoscimenti ufficiali, tanto che hai vinto vari premi: come hai vissuto queste esperienze?
Ho apprezzato il secondo posto al Cittadella perché veniva assegnato da una giuria di scrittori navigati. L’essere entrato tra i cinque finalisti del Premio Italia quest’anno invece è stata una sorpresa assoluta. Paradossalmente è stato l’altro mio romanzo pubblicato in questo periodo, Multiverse Ballad, a vincere un riconoscimento. Sono piccoli traguardi che certo fanno piacere, il giorno in cui te li comunicano. Il giorno dopo si continua a lavorare.
Le tre stagioni di Iskìda sono ispirate al folklore sardo: com’è il rapporto con la tua Sardegna? Ora che vivi in Germania, come vivi il rapporto con la tua terra d'origine?
Il rapporto tra i sardi e la Sardegna è di amore profondo, viscerale, con tratti spesso aspramente controversi. È un sentimento ancestrale di appartenenza che, a stento compreso da noi stessi, è praticamente inesplicabile al prossimo. Comprenderlo è forse il primo e unico motivo della letteratura sarda da quando è nata, compresa la recente “Nouvelle vague” con i suoi nomi più conosciuti. Guardandola da fuori, e ibridandola con un immaginario contemporaneo squisitamente nerd (ah!), forse posso raccontare questa terra madre-matrona senza che in cambio chieda la mia vita. Tanto la ha già comunque.
Il premio Oscar Anthony LaMolinara ha deciso di basare un proprio progetto sulla saga di Iskìda e lo hai affiancato alla sceneggiatura: puoi raccontarci le prime fasi di questa collaborazione e come questa esperienza si inserisce nel tuo presente professionale?
La collaborazione con LaMolinara è attiva, un “work in progress” a più livelli che riguarda sia la lavorazione del teaser cinematografico basato sulla saga, sia la stesura della sceneggiatura del conseguente lungometraggio che si vorrebbe presentare all’attenzione di produttori e investitori. Come si inserisce tutto ciò nel mio presente professionale? Come un sogno da perseguire con la giusta determinazione, ma senza tralasciare il resto del mio lavoro.
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