Antefatto
Napoli, 1759
L’alba, fredda e lattiginosa, trovò il porto di Napoli già in pieno fermento, con i pescherecci che stavano rientrando dopo la nottata di lavoro e alcuni velieri che si preparavano a mollare gli ormeggi. Sulla banchina, bagnata dalla rugiada e dalla spuma delle onde, una folla di carrettieri attendeva il pescato.
Il pungente odore di pesce, di urina e di marciume a tratti veniva spazzato via dalla brezza carica di salsedine proveniente dal mare e, sotto il frastuono delle voci discordanti, si udiva il respiro regolare del mare, il suono dell’acqua che si infrangeva sul molo, lo strepitio cadenzato del cordame.
Nessuno, da quelle parti, faceva caso ai passanti. E nessuno fece caso alla carrozza che da tempo sostava nella via principale d’accesso, in attesa di qualcuno.
Ugualmente, nessuno ebbe più di uno sguardo distratto per i due gentiluomini scesi da una piccola imbarcazione, che attraversarono a passo rapido la banchina e raggiunsero la carrozza, scomparendo su di essa pochi istanti dopo.
Nessuno notò lo sguardo della dama che attendeva in vettura, quando vide arrivare i due uomini. Il viso, non più giovane, era segnato da profonde occhiaie, le gote esangui, gli occhi velati dalla stanchezza. Tuttavia ella sorrise, illuminandosi tutta, come se un grande peso le si fosse levato dal cuore.
Un rapido saluto, il tempo di far salire i due passeggeri e la carrozza partì, svanendo nelle vie della città.
Carlotta Gaetani aveva di nuovo suo marito al fianco.
– Come stai? – gli chiese, tendendo una mano tremante su quelle di lui.
L’uomo, dalla barba incolta, sollevò appena gli occhi sul viso della moglie. Le sue vesti eleganti erano luride, i pizzi che pendevano dalla manica, un tempo candidi, erano impregnati di lerciume. Persino le mani, sotto a quella candida della donna, somigliavano ad artigli neri e deformi.
– Sto bene – rispose laconico. – Grazie.
Carlotta cominciò a piangere silenziosamente. – Quel demonio non ci dà tregua. Ci rovinerà per sempre.
– Per adesso non ci è riuscito – rispose lui con un ghigno.
L’altro uomo, finora rimasto in silenzio, posò una mano sulla spalla di Carlotta. – Avrete sempre degli amici, signora. Non dovete temere.
Lei si volse a fissarlo con odio. – Amici come voi, dottore? Amici che incoraggiano mio marito nelle sue follie, che lo inducono a dilapidare tutto il patrimonio dei San Severo per quella cappella che… – si interruppe, spaventata dallo sguardo iroso di suo marito Raimondo. Aveva capito da tempo che dietro a quel progetto c’era qualcosa di più del solo orgoglio di famiglia. Sapeva, per quanto nulla le fosse mai stato detto, che l’ossessione per quel restauro nascondeva altri scopi. Il suo istinto le diceva che anche l’arresto di Raimondo, voluto e concertato dal suo nemico giurato, Bernardo Tanucci, aveva a che fare con i segreti nascosti nella cappella.
Carlotta era sempre rimasta ai margini della vita del marito, tra loro non c’era mai stata alcuna confidenza, se non quella necessaria al quieto vivere, ma lei aveva comunque capito molte cose anche senza esserne messa a parte. Di certo c’era che in pochi anni il consistente patrimonio di famiglia, a cui lei stessa aveva contribuito con la sua dote, era stato prosciugato dalle spese per la cappella che Raimondo aveva deciso di restaurare. Era diventata un’ossessione vera e propria per il Principe, tanto che, una volta esauriti i fondi, era arrivato a oltraggiare la loro casa, trasformandola in un luogo di perdizione, di loschi traffici e di giochi d’azzardo. Nonostante tutto, Carlotta gli era rimasta accanto, considerandolo suo dovere, e in seguito all’arresto aveva mosso tutte le sue conoscenze per riavere il marito.
Ma era stanca, stanca dei troppi segreti, della presenza incessante di Giuseppe Salerno nella loro vita, di essere solo spettatrice della rovina dei San Severo senza poter agire per evitarlo.
Fissò il marito, che in pochi mesi di prigionia si era ridotto a una larva, l’ombra dell’uomo che era stato, e ne affrontò l’ira con dignità e fermezza. – Non intendo più tacere, Raimondo. Se sei uscito dal carcere è grazie a me e non ai tuoi amici massoni. Li hai traditi, ti vogliono morto quanto Tanucci, lo sai? Perché ti ostini con questo gioco perverso? Che cosa nascondi in quella cappella? Conosco bene quanto te i simboli che hai scelto, e non capisco, dopo tutto sei stato tu a rinnegare la Loggia… e allora perché? Perché persegui quel progetto diabolico?
Raimondo e Giuseppe si scambiarono un’occhiata perplessa. Poi, inaspettatamente, il principe di San Severo sorrise. – Di diabolico, mia adorata, c’è solo l’ignoranza – le rispose. – E certo non è un difetto che ti macchia. Hai ragione, ti devo qualche spiegazione, anche solo per quanto hai fatto per me. Ebbene, è vero che la cappella nasconde un segreto, che solo in parte hai scoperto. Perché, vedi, a volte quando si vuole nascondere qualcosa bisogna metterla in evidenza, mostrare per celare.
Carlotta drizzò le spalle con fierezza. – Basta enigmi.
– D’accordo. Andiamo insieme alla Cappella. Ma preparati a un lungo viaggio.
La donna credette che il carcere gli avesse confuso la mente. – La cappella è a pochi isolati da qui – replicò.
– Sì. Ma questo è solo l’inizio.
Mio caro Lexon,
ti scrivo in questa notte che non passa mai, in cui seguo le costellazioni muoversi secondo arcani percorsi nel cielo autunnale, ancora terso e reso chiaro da una miriade di stelle. Per me è una notte agitata da oscuri presagi, da un’ansia che non riesco a dominare e ho pensato così di fermare sulla carta un po’ di quelle cose che da tanto tempo avrei voluto dirti e che per tanti motivi non sono mai state affrontate. Non so per quale impulso io senta l’urgenza di scrivertele adesso, ma dentro di me qualcosa mi dice che presto verrà il giorno in cui le nostre strade si divideranno come finora non è mai accaduto, che qualcosa cambierà per sempre noi, le Terre, la stessa magia che tu e io condividiamo.
Lascia che il mio ricordo corra indietro, a quel giorno in cui i nostri destini si sono incrociati, il momento in cui per entrambi si è compiuto il passo verso la storia che ci ha condotti fin qui, a essere ciò che siamo. Tu eri poco più di un bambino, io una severa insegnante con la vita spezzata in mille esistenze. Avresti mai creduto, quel giorno, quando ti sei infiltrato a Palàistra fingendoti uno studente, che il Magister che avevi davanti sarebbe diventato Supremo? Io no. E non sapevo nemmeno d’avere di fronte, guardandoti, il mago più potente delle Terre. Eppure già allora credo che lo sentissimo tutti e due, il legame che si stava annodando intorno a noi. Sei stato costretto a crescere in fretta, a fare presto i conti con eventi tanto più grandi di te e io sono fiera, più di quanto non ti abbia mai dimostrato, di essere stata, fin da allora, tua amica. Forse, già sentendomi, senza comprenderlo, tua sorella.
Tu, con il tuo entusiasmo, la tua spontaneità mi hai reso una persona e una maga migliore. Vorrei dirti di non cambiare, di rimanere come sei ora, di non lasciare mai che il potere che possiedi rovini la tua visione del mondo.
Non lasciare che la magia prenda il sopravvento.
Nessuno fra i maghi terranei, prima di te, è mai stato in grado di utilizzare incanti dei regni esterni. Quello che arriverai a fare potrai scoprirlo solo tu, col tempo e l’esperienza, ma in nessun caso dovrai permettere alla magia di diventare l’unico obiettivo della tua vita, perché finirebbe con l’intrappolarti come ha fatto con tutti i maghi naturali. Penso ad Alidel, chiusa nel castello di Terreverdi, a Dert nella foresta di Aghia, a Oriol nel suo palazzo costiero. Magnifiche e terrificanti solitudini. Penso anche a me, a com’ero prima di rimanere invischiata nei vostri affari di famiglia, nella leggenda degli Udkils, prima che tu erompessi nella mia tranquilla solitudine.
La magia, come ti ho detto tante volte nel corso della tua istruzione, è un dono e insieme una maledizione, ci rende capaci di cose meravigliose, ma in cambio si prende una parte di noi: ci ruba il cuore, ci rende difficile amare ed essere amati.
Strano, anche per me, scriverti queste cose ora, mentre insieme a Nimeon mi sto recando a Leris.
Quando leggerai queste parole, saprai già del nostro matrimonio, avrai forse superato anche la delusione per non essere stato presente. Se ora sono la moglie di Nimeon lo devo a te, che ci hai costretti ad aprire gli occhi di fronte a una realtà scomoda come quella che la leggenda ci ha aperto davanti.
In questo momento tuo fratello, mio marito, dorme sereno nella capanna che ho costruito con la magia per ripararci nella notte. Abbiamo lasciato alle nostre spalle le nebbie e la torre, ci stiamo dirigendo verso Sud, nel timore che anche sul reggente delle Pianure incomba l’ombra dell’incanto sommerso.
Mai, come in questi giorni, sento che siamo stretti in una morsa, che il futuro di tutti noi è incerto.
Vorrei poterti dire che andrà tutto bene. Vorrei poterlo dire a me stessa, ma non ci riesco.
Devo vincere la tentazione di subissarti di raccomandazioni come ho fatto quando eri mio allievo: penso di averti ripetuto così tante volte di non mangiare troppi dolci e non abusare delle comodità magiche, che credo sentirai i miei rimbrotti nella testa fino alla vecchiaia. Ho paura che la situazione attuale sia peggio di quanto le Terre abbiano mai affrontato e noi tutti siamo in prima linea. Il futuro delle Terre dipenderà dalle nostre scelte e da come useremo il nostro potere.
Vivo in questi luoghi da tanti anni, ormai, ma ancora mi stupisco per la loro bellezza. Le Terre in questa stagione sono splendide. I Boschi intorno a Palàistra si tingono dei colori autunnali, il caldo dei mesi estivi viene spazzato via dalle brezze più fresche, di mattina sui campi si stende una lieve bruma. Anche le Pianure nel primo autunno sono bellissime, ovviamente prima che cominci a piovere e le strade diventino tutte un fiume di fango… le zone costiere, battute dai primi temporali, profumano intensamente di salmastro, i mercati nelle città si riempiono delle merci e dei nuovi raccolti, compaiono sui banchi i frutti variopinti dell'estate e le dolci primizie della nuova stagione. È il tempo della vendemmia e le vigne risuonano di risate e chiacchiere.
A nord, Terreverdi si prepara al riposo invernale, perché lì la pioggia arriva prima, come alle Colline dove il freddo è già più intenso. A Palàistra sono iniziati i corsi, le taverne sono piene di vita e di canti, specie la sera, quando i ragazzi si riuniscono nella sala da pranzo per trascorrere in compagnia le ore prima del riposo.
Voglio che tutto questo possa continuare. Voglio che l’anno prossimo questa magia si ripeta. Vorrei saperti fra i ragazzi che entreranno al cavalierato, ma so che non ci sarai, e anche tu, come me, lascerai a Palàistra un pezzo di cuore. So, con una chiarezza che mi spaventa, che la fine di questa battaglia ci porterà più lontano di quanto desideriamo, ma sappi sempre che, qualunque cosa accada, il mio affetto fraterno per te resterà immutato, qualunque sarà il percorso che sceglierai o che la vita ti porterà a scegliere.
Abbi cura di te, non dimenticare mai chi sei.
Ester
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