Una delle critiche più insistenti rivolte a Star Wars: il risveglio della Forza è la sua mancanza di originalità poiché semplice copia di Star Wars: Episodio IV del 1977. Che J. J. Abrams, una sorta di George Lucas 2.0, per questo nuovo capitolo del 2015 non abbia puntato esattamente sull’originalità risulta abbastanza evidente, ed è inutile quindi, dopo parecchie settimana dall’uscita in sala, dare un giudizio di valore basandosi su di un tale parametro. Per chi scrive è invece assai più interessante riflettere su come Star Wars sia, oggi come ieri, lo specchio di ciò che accade al cinema d’intrattenimento americano.
Quello che ha reso grande la prima trilogia SW iniziata nel 1977 è stata la capacità di George Lucas di riassumere, stilizzare e trasformare in icone, tantissimi fermenti narrativi del suo tempo. Perché, se è vero che il regista americano ha studiato L’eroe dai mille volti di Campbell dando ai suoi film una struttura da manuale, bisogna anche riconoscergli la capacità di aver saputo creare una variazione sul tema capace di infondere a Guerre Stellari tratti di sorprendente originalità. In SW Leila non è più solo la principessa da salvare e Luke, alla fine del suo percorso iniziatico alla forza diventa sì un jedi, ma non conquista la ragazza come di solito accadeva nei film classici, ma è invece Han Solo, non più solo una spalla ma alter ego sdoppiato dell’eroe, a caricarsi della funzione romantica. Lucas insomma riesce a rielaborare strutture classiche presenti in ogni fiaba rimanendo fedele allo schema di base e variandole quel tanto che basta per andare incontro al gusto del pubblico. Come una sorta di spugna dell’immaginario collettivo di quegli anni (da Akira Kurosawa a Flash Gordon), crea i personaggi secondari come delle icone, senza bisogno di spendere un minuto della narrazione del film per dare loro una storia coerente. Jabba the Hutt è un esempio perfetto in questo senso, perché è un alieno ma, allo stesso tempo, ha tutti i caratteri di un laido sultano chiuso nel suo harem esotico. Lo spettatore sa tutto di lui e sa che cosa aspettarsi perché lo ha già visto in altri mille film anche se con forma umana. È, insomma, un vero e proprio personaggio icona.
Ammettendo che siano state proprio le variazioni sul tema e l’uso di icone riconoscibili a determinare la genialità che sta dietro a Star Wars, Abrams non ci prova neppure a capire cosa abbia funzionato così bene nel film del 1977 da rendere una pellicola d’intrattenimento una pietra miliare della storia del cinema. A differenza di ciò che ha fatto con Star Trek dove la componente “reverenziale” verso l’oggetto mitico non c’è (lo stesso Abrams ha dichiarato di non aver mai seguito la serie), in Star Wars tutto diventa sacro, intoccabile, quasi magico e per questo impossibile da indagare.
Episodio VII è un clone del IV perché la mitologia non deve essere intaccata neppure da chi ne progetta un seguito (o un prequel, Lucas compreso). Non stupisce quindi che a scrivere la sceneggiatura sia stato chiamato Lawrence Kasdan, lo stesso de L’impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi, o che nel cast ci siano Harrison Ford, Mark Hamill e Carrie Fisher, gli unici possibili attori in grado di traghettare nel mito i nuovi personaggi.
Sarebbe potuta andare diversamente? Ci sarebbe potuto essere in questo nuovo film quell’estro che ha dato il via alla forza prorompente e innovativa di Star Wars vecchia maniera? La risposta a questo interrogativo potrebbe arrivare da un’altra lunga saga, quella di 007, il cui ultimo film Spectre è uscito solo pochi mesi fa. L’epoca di Daniel Craig nei panni dell’agente britannico più conosciuto del mondo era stata inaugurata da Casinò Royale, pellicola che aveva scardinato quasi tutti i dettami caratteristici di Bond. I tre film successivi hanno invece condotto a una graduale “normalizzazione” della serie, riportando questa nuova versione ai canoni “classici”, senza alcuna rielaborazione ma limitandosi a una modernizzazione della forma più che della sostanza.
Anche nel nuovo ciclo di Terminator Genisys, se pure in modo meno evidente rispetto alle saghe sopra citate, è il recupero del classico primo capitolo del 1984 a innescare l’avventura. Il reboot inizia mostrando come Kyle Reese sia andato indietro nel tempo per salvare Sarah Connor, peccato che dopo poco la narrazione devii rispetto a quella del film capostipite. La nuova storia però ha bisogno di essere generata dal vecchio mito e non da un ulteriore sequel. A sancire di diritto la ripartenza c’è l’attore icona della saga: così come il vecchio cast di Star Wars, solo Arnold Schwarzenegger è legittimato a rifar partire il racconto. Indubbiamente in altri film è più difficile riconoscere questo abbandono del postmoderno per un gusto più neoclassico, perché per essere evidente, tale fenomeno ha bisogno di un film capostipite o di una serie entrati nell’immaginario collettivo e per questo diventati sacri per tanti fan, che oggi più di ieri sono in grado di dire la loro. Non si tratta più di un approccio colto e cinefilo perso il cinema, quanto di venerazione quasi religiosa.
Da una parte l’industria spinge per i remake, dall’altro i consensi calano e così nascono le variazioni sul tema: va bene fare un nuovo film sui Ghostbusters ma con un cast tutto al femminile, mentre per i trent’anni di Ritorno al futuro è bastato riproiettare la trilogia sul grande schermo.
Nel caso di quest'ultima saga va però detto che non è possibile realizzarne un remake per volontà di Robert Zemeckis e Bob Gale, che l'hanno blindata fino alla loro morte da contratto.
Difficile dunque tirare già le somme di un fenomeno che pare mostrare i primi segni di crescita. Star Wars: il risveglio della Forza potrebbe essere il nuovo capostipite di un gusto per il cinema tutto da indagare, specie se si considerano gli annunci di remake di titoli come Blade Runner, Highlander o Dirty Dancing, o gli imminenti Creed e Point Brek.
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