La percezione delle opere d’arte, di qualsiasi forma d’arte, cambia nel tempo. A questo si aggiunge la difficoltà di traduzione di un linguaggio in un altro linguaggio artistico. Vedere un’opera di William Shakespeare, così come una tragedia greca, o un’opera di Goldoni, ha un impatto talmente diverso sugli spettatori di oggi, tale da indurli a compiere un atto quasi di trasmutamento che li porti a comprendere cosa potesse significare per i contemporanei.
Chi oggi va a vedere Riccardo III deve fare più atti di sospensione d’incredulità: calarsi nel tempo passato (sarebbe opportuno conoscere un minimo di storia per comprendere meglio la vicenda), credere a quel linguaggio a volte ostico e (forse questa è la cosa meno difficile) alla veridicità degli eventi. Se si vede un’opera nata in un linguaggio, poi tradotta (non per questo tradita) in un altro linguaggio, lo spettatore dovrà compiere un ulteriore passaggio: l’accettazione, anche inconscia perché sia appagante e totalizzante, di uno spostamento semiologico. Tutte queste operazioni di traduzione, che allontanano dalla forma primigenia solo apparentemente, rendendo invece comprensibile opere a noi lontanissime, spesso avvengono, come auspicato, inconsciamente e lo spettatore si ritrova a confrontarsi con vicende attualissime e archetipiche.
Riccardo III è uno di questi esempi. Portato in scena dal direttore artistico, Rupert Goold, del Teatro Almeida di Londra, lo spettacolo è interpretato da un cast di tutto rispetto, che stupisce per la bravura e la credibilità delle azioni. E qui si apre un altro problema pesantissimo che cade come una mannaia su molto (purtroppo) del nostro teatro: la credibilità. Tantissimi attori, a teatro in particolare, ma anche il cinema non è esente, sembrano vagare senza motivazioni, sembrano finti ed è difficilissimo per gli spettatori calarsi nella storia. Le grida di Carlo Cecchi, attore e regista fiorentino, che durante le prove imponeva la verità delle intenzioni e quindi delle azioni, spesso sono l’ideale mai raggiunto.
Gli attori della compagnia sono bravissimi, hanno una impostazione notevolissima sia tecnica, sia interpretativa. I nomi di richiamo sono: Vanessa Redgrave e Ralph Fiennes, che stranamente si supera e sorprende, ma degnissimi di nota sono i comprimari: Susan Engel, bravissima mamma di Riccardo III, straziata dalla crudeltà del figlio, Finbar Lynch è il freddo Duca di Buckingham, speranzoso di ottenere le sue ricompense eseguendo e appoggiando Riccardo III; l’eccezionale e distrutta duchessa di York, Cecilia, a cui Riccardo uccide i figli, interpretata da Aislín McGuckin.
Interessante la scenografia minimale, efficace, funzionale. Lasciano un po’ perplesse alcune trovate registiche: perché sottolineare la follia della Regina Margherita, Vanessa Redgrave, facendola entrare con un bambolotto? C’era bisogno? Aggiungeva nulla? Rendere attuali i messaggi e gli scambi di comunicazione con il cellulare ha senso? È coerente con tutta la messa in scena? Va benissimo rendere più vicino a noi lo spettacolo, ma bisogna fare un lavoro di adattamento dall’inizio alla fine, non solo per metà del film. Nonostante ciò, la forza della messinscena, la forza recitativa, la forza dei sentimenti mostrati e celati è tale che tutte le perplessità diventano dettagli e anche il cambiamento repentino di Riccardo III, morso dai suoi risentimenti (momento in cui l’opera teatrale barcolla testualmente), risulta accettabile pur se frettoloso.
Ottima e difficilissima da realizzare la resa filmica dell’opera. Vale assolutamente la pena di godere questo spettacolo, nonostante la lunga durata, che potrebbe mettere a dura prova i più impazienti.
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