L’Impressionismo, o meglio gli artisti che furono definiti Impressionisti, non godevano di grande apprezzamento in Francia alla fine del 1800. Erano artisti di rottura e proponevano non solo soggetti non canonici, ma anche un modo di dipingere percepito come fastidioso, a volte offensivo, confusionario e privo di ogni epicità. Vennero boicottati dagli accademici e non parteciparono a mostre ed esposizioni. Uno dei pochi che comprese la grandezza di questo movimento fu il mercante Durand-Ruel, che finanziò e promosse l’attività di Monet, Renoir, Manet, Sisley solo per citarne alcuni. L’idea geniale che ebbe per smuovere le acque di un ambiente artistico integralista fu l’organizzazione di una mostra in America (nel 1886), paese che percepiva tutto con gran curiosità, soprattutto se proveniente da un luogo così ricco di fermento culturale, considerato la patria dell’arte. I trecento dipinti fecero eco e aprirono nuovi orizzonti ad artisti locali, che presero le armi contro un mare di affanni e partirono decisi a confrontarsi con i maestri, i quali di ritorno suscitarono curiosità anche in patria. Questa la premessa del film documentario Il giardino degli artisti. L’impressionismo americano, diretto da Phil Grabsky e distribuito in l’Italia da Nexo Digital con i media partner Sky Arte HD e MYmovies.it.
Il film, molto ben fatto, privo di retorica e di momenti di fiacca, per fortuna libero da fiction pesanti che distolgono senza motivo dal contenuto artistico, trae spunto dalla mostra The Artist’s Garden: American Impressionism and the Garden Movement, 1887-1920 della Pennsylvania Academy of the Fine Arts di Philadelphia. In America l’Impressionismo fiorì (è proprio il caso di dirlo) nel suo rapporto con i giardini.
La riproduzione di fiori, cespugli, piante, aiuole, campi fu il fulcro e l’ispirazione per artisti come Henry Ward Ranger (1858-1916) e Willard Metcalf (1858-1925), i cui soggetti erano i paesaggi di Old Lyme, nel Connecticut, con spiagge e acquitrini paludosi che divennero specchi di luce spesso malinconici e affascinanti. Nel film vengono mostrate anche le immagini di Appledore Island, luogo in cui Celia Thaxter, poetessa e mecenate, ospitò artisti e amici come Emerson, Nathaniel Hawthorne, Henry Wadsworth Longfellow, John Whittier e Sarah Orne Jewe, in cui iniziò una lunga relazione con Childe Hassam (1859-1935), probabilmente il disegnatore, illustratore e pittore più famoso dell’Impressionismo americano.
Osserviamo, come difficilmente potremmo fare, i dipinti di una delle più importanti pittrici di questo movimento, Mary Cassat (1844-1926), la prima ad andare in Francia, a incontrare gli autori a cui si ispirava. Il suo lavoro si concentrò sulla maternità e sul corpo di bambini e donne con un’attenzione più intima rispetto a quella che tanti pittori ebbero. Analizziamo i dipinti di John Singer Sargent (1856-1925), eccellente ritrattista, capace di cogliere sfumature dell’animo umano con raffinatezza ed empatia; quelli di Philip Leslie Hale (1865-1931), che nonostante la meravigliosa qualità artistica relegò le donne a una condizione stridente rispetto a quella che stava mutando a quei tempi: le donne non erano più il contraltare di piante, non erano cornice di un interno, figure a margine che riempivano l’immagine come natura morta, erano sempre più protagoniste e attrici di cambiamenti spesso invisi a tanti, anche ad artisti, incapaci di adattarsi ai mutamenti, che si eclissarono in luoghi lontani dalla città, rifiutando i nuovi modelli di vita.
Forse questo fu il problema rispetto alla Francia: in America i mutamenti sociali furono più rapidi, ci fu meno tempo per maturarli e gli artisti che si erano appena avvicinati a un impulso travolgente come quello francese, dovettero subito fare i conti con i limiti che poneva e con l’incoerenza rispetto a una società cambiata e diversa da quella della nazione di origine. Non fu facile: le contraddizioni fra società e artisti furono stridenti e non tutti ebbero la capacità di far loro fronte, molti restarono ai margini perpetrando un ideale di bellezza tramontato. Ma senza gli impressionisti americani, senza i Ten painters (che non contavano neanche una donna fra i partecipanti), non ci sarebbero potuti essere i Fauves, gli Espressionisti, non ci sarebbe stata quell’evoluzione e quel sano confronto che per fortuna si creò.
Anche in questo caso vale il detto “nemo propheta in patria”.
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