Nessuno meglio di A. è in grado di comprendere le parole del tragico Amleto, quando spiega ad Orazio che ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne possiamo sognare nella nostra filosofia, perché il protagonista di Ogni Giorno, riuscita trasposizione cinematografica dell’omonimo bestseller per ragazzi scritto da David Levithan, vive sospeso in un limbo percettivo in cui spazio e tempo sono strutture puramente accessorie
Per A. svegliarsi ogni mattina in una differente camera da letto e con sembianze sempre diverse, affrontare la giornata ignorando chi siano le persone che lo circondano è diventata la sua solitaria, kafkiana routine che si ripete da che lui ne abbia memoria.
In questo vortice privo di futuro ma di perenne qui e ora, cerca di lasciare meno tracce possibili di sé nei corpi in cui si reincarna temporaneamente, quelli di liceali che non hanno in comune nulla tra loro se non il fatto di abitare nella medesima città. Quando incontra Rhiannon (Angourie Rice, L’inganno, 2017) bionda e sensibile coetanea, A. mette in discussione tutta la sua imperscrutabile essenza, spingendolo a rivelarsi e a tentare d’ interrompere il continuo viaggio d’indefinito presente.
Gli scambi d’identità e l’introduzione di tratti soprannaturali non sono rari in letteratura e sul grande schermo: da Vice Versa (1882) dello scrittore ottocentesco F. Anstey allo spumeggiante Nei panni di una bionda (1991) del regista Blake Edwards fino al piccolo capolavoro Ricomincio da capo (Harold Ramis, 1993) in cui Bill Murray rivive in loop sempre il medesimo giorno, realtà e finzione si mescolano non tanto per esplorare le possibilità dell’immaginazione quanto a rafforzare il percorso del cambiamento dell’eroe di turno, che tornerà ad essere di nuovo sé stesso ma con un miglior profilo.
Il film diretto da Michael Sucsy, regista del dimenticabile La memoria del cuore (2012) è invece un piacevole distacco dalla norma e, con pragmatico candore, utilizza l’aspetto surreale del destino di A. non come forma di espiazione ma per esplorare tematiche per nulla superficiali come la fluidità dell’attrazione fisica, l’empatia come antidoto all’inevitabile solitudine dell’uomo e le infinite possibilità dell’amore a prescindere dal genere di appartenenza. I ritratti dei ragazzi in cui A. è ospite temporaneo costituiscono l’ossatura più suggestiva del racconto: ciascuno custodisce un punto di vista che, in progressione, si aggiunge a quello degli altri fino a formare un ambizioso quadro di emozioni in cui la parola singolo è oramai superflua e priva di ogni attrattiva.
Certo, il limite dato dal fondale narrativo adolescenziale si percepisce in certe semplificazioni caratteriali, a cominciare dal rapporto con in genitori, i cui conflitti cavalcano triti stereotipi di molti, noiosi Teen Movie. Ciò che salva la storia dall’indifferenza dello sguardo altrui è l’inconsueta e felice freschezza con cui Michael Sucsy affronta le trasformazioni quotidiane di A.: rinunciando a qualsiasi artificio tecnico, lascia che siano i numerosi volti dell’indefinito protagonista a scoprire tutte le contrastanti emozioni di un’esistenza vissuta in un mondo parallelo e inconoscibile, il cui incontro fondamentale con l’altro riesce a dare nuovi e fecondi spiragli di senso.
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